Il padre senza nome

Quanto profonda è la mutazione delle famiglie millennial? La figura paterna, almeno come la conoscevamo sino a qualche decennio fa, è evaporata. Che cosa ne è rimasto? Mario Perrotta, con la consueta maestria attoriale, mette in scena tre tipologie paterne, costruite con la consulenza di Massimo Recalcati, psicoanalista noto al grande pubblico, evidenziando le fratture interne a un ruolo che la società e i figli non riconoscono più, ma di cui non riescono a fare a meno.

Lo spettacolo In nome del padre – interamente scritto, diretto e recitato da Mario Perrotta – approda al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma a circa un anno di distanza dalla prima nazionale tenutasi al Piccolo Teatro di Milano. Si tratta della prima parte di una trilogia che intende indagare la complessità dei rapporti familiari e che prende avvio dall’analisi del padre contemporaneo. Il lavoro sulla madre è concluso e andrà in scena nei prossimi mesi, seguirà l’ultimo spettacolo sull’essere figli.

Il progetto di Perrotta è di indubbio interesse: è sotto agli occhi di tutti, infatti, come la struttura della famiglia, almeno di quella dei paesi occidentali, sia andata incontro a stravolgimenti tanto radicali quanto repentini. Ciò ha prodotto, da un lato, la crisi dei ruoli tradizionali, che per secoli avevano fornito a padri e madri chiari criteri di condotta; dall’altro, alla proliferazione di nuovi modelli familiari, ancora in via di definizione, spesso così fluidi e privi di confini, da ingenerare disorientamento tanto nei genitori quanto nei figli.
Che uno psicoanalista e un attore collaborino per fare teatro sulla famiglia e sulle sue antinomie costituisce un’operazione di notevole rilevanza culturale e che però non deve stupire, se si considera l’attenzione che già Freud aveva rivolto a miti e tragedie greche (da Narciso a Edipo), servendosene per far parlare l’inconscio. Sembra vi sia un’archetipica affinità tra psicoanalisi e teatro, in quanto entrambi ci aiutano a vedere ciò che abbiamo sempre sotto agli occhi, a metterlo in prospettiva, smascherando gli autoinganni a cui ci sottoponiamo, pur di permettere alle nostre più segrete pulsioni di raggiungere le loro mete.

Il contributo di Recalcati alla costruzione drammaturgica dei padri portati sulla scena deriva da un’esperienza clinica decennale e raccontata in molti suoi libri di successo. Tra le angosce dei genitori di oggi compare quella relativa «all’esigenza di sentirsi amati dai loro figli», per cui «non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli». La funzione paterna non consiste, tuttavia, solo nel vietare o nel proibire, come immaginava Freud all’inizio del secolo scorso, allorché indicava nell’interdizione dell’incesto (e cioè del godimento assoluto) la principale funzione dell’Edipo, ma – come ebbe a dire Lacan – nell’«unire il desiderio alla Legge», nel donare al figlio il «diritto di desiderare un proprio desiderio».

A compiere tale donazione non può essere più il pater familias, una sorta di autorità trascendentale tramontata per sempre, ma un uomo in carne e ossa, che «amando il nome del figlio» introduce quel particolarissimo significante nell’ordine simbolico, facendolo definitivamente uscire dalla vita biologica. I padri di Perrotta dicono sempre di sì ai loro figli, vogliono instaurare con loro un dialogo paritario, che annulli la differenza generazionale, agiscono in linea col discorso capitalista dominante, appagando ogni loro bisogno e proteggendoli da ogni frustrazione, col risultato però di inaridire una volta per tutte la loro capacità di desiderare.

Il primo è il capo di una squadra di operai, da loro temuto e rispettato, ma respinto senza sconti dal figlio, che lo considera assente e poco istruito (sa parlare solo in veneto); il secondo è un giornalista imbevuto di cultura e di parole altisonanti, incapace di ascoltare le esigenze affettive del figlio, che si trincera nella sua stanza come uno hikikomori; il terzo è un imprenditore napoletano, ignorante e narcisista, che si crede eternamente giovane e fa l’amico della figlia, accompagnandola in discoteca o fumando spinelli insieme a lei, impedendole di vivere la sua vita.
A tenere compagnia a Perrotta, su di un palcoscenico ridotto all’essenziale, sono tre scheletriche sculture raffiguranti un discobolo, un pensatore e un guerriero sconfitto: il monologo, condotto con disinvoltura, prevede continui passaggi da una figura paterna all’altra, quindi tra personalità, stili gestuali e dialettali diversi tra loro. L’impatto estetico è assicurato da una recitazione incalzante, a tratti virtuosistica, per l’impegno fisico richiesto a una sola persona, sebbene il testo proposto non risulti sempre attendibile e la costruzione dei personaggi ci paia rispondere più ai codici del linguaggio televisivo che alle finalità del teatro.

Siamo convinti, come già detto, dell’affinità tra psicoanalisi e teatro, ma reputiamo che il discorso teatrale debba seguire strade diverse dall’esplorazione psicoanalitica: il teatro non è la stanza d’analisi, soprattutto perché nessuno è chiamato a svolgere il ruolo dello psicoanalista né vi è una teoria metapsicologica da dimostrare; i personaggi devono mantenere un imponderabile alone di complessità, così da evitarne la pura e semplice classificazione nosografica. Assolutizzarne i caratteri li ha resi più comprensibili, mentre proprio una loro maggiore incomprensibilità ci avrebbe permesso di avvertirli più vicini e meno grotteschi. La questione qui non è di stabilire se il padre di Alessando, di Virgilio o di Giada siano verosimili o meno, ma se la loro esistenza teatrale convochi davvero lo spettatore, mobilitandolo in un progressivo gioco di identificazioni e di disidentificazioni, suscitando in lui un processo catartico che non si esaurisca nel prendere atto di alcune problematiche sociologiche, ma che lo metta a contatto con le sue dissonanze interiori.

In definitiva, chi sono i padri che si avvicendano sul palco, saldamente confinati al di là della quarta parete che li separa dal pubblico? Quelli creati dall’immaginazione drammaturgica di Perrotta, che vi proietta il proprio vissuto paterno? Quelli delle vignette cliniche elaborate dallo psicoanalista? Quelli che Perrotta trae dai vissuti controtransferali di Recalcati, sublimandoli in forma artistica? O forse nessuno di questi?

In questo gioco di specchi, il padre è perduto per sempre. Non è mai lui a parlare, ma sempre Altri a parlare di lui. Parafrasando Lacan, si potrebbe dire che «il padre pensa dove non è, o non è dove pensa».

Quel che è certo è che da sempre non c’è paternità senza relazione e che, per chiamarla, non disponiamo ancora di un nome. Non è detto che sia un male.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Biblioteca Quarticciolo

Via Ostuni, 8 – Roma
20 ottobre 2019

In nome del padre
di e con Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
collaborazione alla regia Paola Roscioli
aiuto regia Donatella Allegro
costumi Sabrina Beretta
musiche Giuseppe Bonomo, Mario Perrotta
allestimento tecnico Emanuele Roma, Giacomo Gilbertoni
foto Luigi Burroni
progetto grafico Fabio Gamberini
organizzazione Permàr in collaborazione con DUEL
produzione Teatro Stabile di Bolzano