Identità e Alterità

A Differenti Sensazioni, l’indagine dell’arte si concentra sul più arcano tra i misteri, l’essere umano.

Tra le questioni relative all’enigma umano, quello della normalità è di sicuro uno dei più controversi e significativi. Parlare di normalità, e per contrarietà di ciò che a essa si oppone, vuol dire toccare in tutta la sua radicalità la tematica del funzionamento e dell’ideologia su cui il nostro Occidente si è edificato.

La letteratura è ormai immensa e tra i primi a darne veste organica fu Michel Foucault, filosofo oggi tanto in voga, un tempo eretico nell’ipotizzare che l’accostamento tra il consumismo sempre più onnipervasivo e la normatività sempre più omologante della nostra contemporaneità globalizzata e globalizzante fosse conseguenza non tanto di una determinata configurazione economica, quanto di una specifica e non scontata relazione tra sapere e potere. Se dirsi normali esula da ogni senso d’umanità e se l’anormalità riferisce al discostarsi dalle imperanti norme convenzionali (fisiche e psichiche, sociali e culturali), parlare di quest’ultima in termini di alterità significa riconoscere in essa l’influenza di fattori che sono prioritariamente storici e antropologici, non naturali o sanitari.

Tuttavia, che questa prospettiva sia ancora lontana dall’attraversare il senso comune, lo rivelano non poche spie, tra cui, ma è solo un esempio, la grande fatica con cui i protagonisti delle istituzioni educative, scuola in primis, tardano ad accogliere la transizione da un paradigma di integrazione a uno di inclusione, come invece suggerito da ricerche psico-pedagogiche ormai in atto da decenni.

In questo virtuoso ribaltamento di prospettiva, l’esperienza artistica può e deve svolgere un ruolo propositivo. Presentato in anteprima all’interno di Differenti Sensazioni, lo storico festival di Stalker Teatro, ensemble che da oltre quarant’anni promuove una ricerca «fortemente connotata sul tema della diversità e dell’impegno sociale […] con una funzione rigenerativa sotto il profilo culturale, artistico e sociale», In verdis è un progetto di LiberamenteUnico, creato da Barbara Altissimo in collaborazione con Outsider Onlus e le cooperative sociali del territorio «che condividono l’obiettivo della partecipazione e dell’integrazione di giovani soggetti (18-30 anni) in progetti di carattere artistico e culturale di alto valore formativo e qualitativo».

In verdis vede in scena un nutrito gruppo di giovanissimi performer (quattordici) e, facendo capire da subito da che parte l’allestimento vada a parare, si apre significativamente sulle note di Young and Beautiful di Lana Del Rey, una sorta di inno dell’accettazione («Will you still love me when I’m no longer beautiful?»).

Nell’intrecciato incedere di In verdis, i ragazzi e le ragazze alternano momenti di solitudine e isolamento nelle proprie barriere (disegnate sul pavimento con il gesso), sconfinamenti e presentazioni, ricerca dell’altro e dunque conflitto e riappacificazione, il tutto restituito attraverso complessi momenti di danza e dialoghi anche serrati. Se ai margini del palco la stessa Altissimo si pone nelle vesti di facilitatrice dei processi scenici, la prova performativa sfoggia livelli di impegno e dedizione notevoli, come anche e soprattutto una capacità di ascolto e attenzione dell’altro – resa ancora più ardua dalla presenza di interpreti sensibili e visibilmente emozionati dalla questa prima uscita pubblica – altissima.

Il coinvolgimento e la passione non sono, tuttavia, le uniche qualità riscontrabili in In verdis, la cui composizione drammaturgica nasce e si sviluppa come opera di assemblaggio di Barbara Altissimo ed Emanuela Currao degli spunti donati direttamente da una ampia e articolata comunità di lavoro afferente al disagio e alla disabilità giovanile. Comunità nella quale, tra l’altro, alcune individualità hanno mostrato di possedere importanti talenti nella scrittura (una straziante lettera al padre), nell’impostazione vocale, nella presenza scenica, nonché nel riuscire a non patire alcune scelte fortemente didascaliche (dai balli dionisiaci al testo sui social, fino alla natura decorativa dei costumi).

Quindi convince, e molto, la portata sociale di un lavoro che solo per ingenuità, o peggio malafede, potrebbe essere frainteso nei termini di chi semplicemente si accontenta di mettere assieme coloro che sono posti ai margini della società da quella norma impersonale che riduce l’essere umano a cittadino e consumatore e, allora, relega nell’inutilità chi necessita concretamente e non come mera dichiarazione di principio dall’accudimento al supporto, dall’incoraggiamento al non sentirsi continuamente giudicato (azioni concrete portate avanti da LiberamenteUnico con respiro pluriennale). Al netto di un allestimento work in progress e che certamente anela a connotarsi non quale prodotto, ma esperienza da realizzare attraverso il linguaggio universale dell’arte, il progetto di LiberamenteUnico si inscrive, dunque, nell’orizzonte di una vera e propria utopia, nella prospettiva di chi ambisce a far «sviluppare l’autenticità di ogni singolo essere umano» senza prendere a misura la famosa norma eterodiretta.

Proprio per questa nobile intenzione di fondo e lo stesso entusiastico coinvolgimento dei partecipanti, un aspetto – disvelatosi clamorosamente nel monologo finale, ma percepibile fin dall’introduzione musicale – rischia di rappresentare una grave sfumatura di grigio, ossia il parlare della diversità attraverso la diversità rivelando, al di là dei lodevoli intenti, un sotterraneo culto dell’inferiorità in chi chiede con rispetto e per favore «il diritto a un giorno di bellezza assoluta» (in corsivo citazione dallo spettacolo) e non lo reclama come diritto costituzionale.

In verdis, dall’altro lato dello specchio, quello delle influenze latenti e non manifeste, rischia di presentarsi nelle forme di un dispositivo autodisciplinante, di fomentare una sorta di modalità espressiva contenitiva e conformistica. Non si tratta di sminuirne la valenza sociale o di non riconoscere positività assoluta alla gratificazione che ragazzi, ragazze e rispettive famiglie possono scoprire nel presentarsi al pubblico superando immani difficoltà personali, organizzative e logistiche (a maggior ragione se in un contesto importante e prestigioso come Differenti Sensazioni).

Si tratta, considerato il background da cui LiberamenteUnico nasce e le ambizioni che cova in seno, di osare ancora di più, di spezzare quelle catene che, osservando l’Alterità e di fronte a essa, potrebbero inchiodare chiunque a una sensazione di proprio agio non solo perché permettono di valutare positivamente sé stessi nei confronti di qualcuno in una condizione peggiore della propria, ma perché consentono addirittura di dare paternalistico sfoggio di accondiscendente bontà e superiore umanità. Un rischio che, per fare due esempi completamente opposti tra loro, i monumentali allestimenti di Lenz e quelli minuti di Satyamo Hernandez eludono magnificamente e che non rappresenta minimamente le premesse da cui In verdis muove e che, va detto, deve ancora prendere forma definitiva, essendo quella andata in scena a Torino un’anteprima di studio.

A seguire, Amalia Franco ha presentato il secondo e il terzo quadro del Trittico. Lasciare andare con grazia. Un allestimento solido nella preparazione tecnica, splendido nell’interpretazione fisica e sontuoso per impianto creativo, poeticamente struggente e, nell’insieme, in grado di provocare, anzi invocare, una paradossale partecipazione del pubblico attraverso un crescente coinvolgimento lirico.

L’artista salentina sussume teatro danza, coreografie contemporanee, teatro di figura e marionette in uno spettacolo dalle fattezze adamantine, pur ancora da sgrezzare, di grande complessità e superba audacia, capace di prevedere, all’interno della propria complicata e scandita partitura drammaturgica, margini operativi di libertà secondo passione (propria) e compassione (percepita dal pubblico).

L’esposizione del corpo nudo della Franco si veste, inizialmente, della sola marionetta, ma non per celarsi dietro di essa, tutt’altro. I due corpi si compenetrano, prendono a vibrare all’unisono e, nella suggestiva penombra creata da Anna Moscatelli, ogni distinzione perde di significato dando forma alla trasfigurazione artistica di un’indagine che volge la propria attenzione a tematiche di assoluto contemporaneità e, al tempo stesso, inattualità, ossia la verità di un corpo che nascondendosi disvela la propria Identità e Differenza, la propria spontanea intimità e il necessario relazionarsi intersoggettivo. In questa ecologia quasi metafisica, la scenografia non è scevra da elementi figurativi e i pochi oggetti e movimenti scenici sono prepotentemente concreti, per esempio nell’intensa coreografia centrale, nel disincanto dei versi di Rilke e nell’equestre flamenco finale,  ma l’enorme tasso di lirismo permette a Lasciare andare con grazia di sfuggire a ogni caduta nel didascalico.

Nonostante la ricerca di una paradossale empatia intellettuale del pubblico costituisca un rischio altissimo, soprattutto per quello nostrano così tenacemente ancorato al teatro di parola e alle narrazioni, e pesi l’assenza di un elemento ritmico primordiale che possa sostenerne la tenuta, la sconcertante statura artistica della Franco rappresenta un luminoso esempio di arte capace di eludere ogni castrante definizione.

Chapeau.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno del Festival Differenti Sensazioni XXXI edizione
Officine Caos
piazza Montale 18/a Torino
venerdì 2 novembre 2018, ore 21

In verdis (anteprima)
produzione LiberamenteUnico
creazione Barbara Altissimo
drammaturgia Barbara Altissimo e Emanuela Currao
spazio scenico e luci Massimo Vesco
in collaborazione con l’Associazione Outsider Onlus e sostenuto dalla Fondazione Piemonte Dal Vivo, Fondazione CRT e Intesa Sanpaolo
in collaborazione con Cooperativa Valdocco, Cooperativa Atypica, Associazione Nuova Generazione Italo-Cinese ANGI e altre cooperative sociali del territorio

Trittico. Lasciare andare con grazia (secondo e terzo quadro)
di e con Amalia Franco
luci Anna Moscatelli
marionette Amalia Franco
costumi Antonia Matichecchia
oggetti di scena Milio Porchetti
con il sostegno di Natacha Belova e Gianluca Vigone alla creazione delle marionette