Beppe Rosso, attore, regista e autore teatrale, è un personaggio straordinario, con una forte propensione alla drammaturgia contemporanea.

Nel 1998 fonda l’A.C.T.I., Associazione Culturale Teatri Indipendenti, che ha come obiettivo la realizzazione di progetti teatrali orientati a un forte impatto col territorio.

Nello spettacolo presentato al Teatro Atir-Ringhiera, Flags, lo vediamo, oltre che come regista, vestire i panni di un padre distrutto dalla morte di un figlio perduto nella Guerra in Iraq.

Le chiedo un brevissimo riassunto dello spettacolo.
Beppe Rosso: «Il testo parla di un padre – di cognome Desmopulis perché evidentemente è un greco emigrato negli Stati Uniti – e della sua famiglia, che verrà completamente stravolta dagli eventi. Il protagonista, che anni addietro aveva combattuto in Vietnam, fa lo spazzino ed è molto orgoglioso del figlio maggiore, Carter, che si è arruolato in guerra in Iraq. Probabilmente non sa nemmeno bene dove sia l´Iraq ma ne è molto orgoglioso, comunque. Ha poi un secondo figlio, Frankie, che invece non sopporta, un figlio degenere che gli ha rubato un boyler, un ragazzo inquieto che lui ha, in un certo senso, rinnegato. Carter – che in Iraq è comandante di carri armati – viene ucciso quando avrebbe dovuto già essere in congedo. Poco alla volta si scopre che non è morto combattendo da eroe, così come avevano voluto fargli credere, bensì mentre era addetto alle pulizie a Bagdad. Questo, nella mente del padre Repubblicano, convinto sostenitore della guerra, scatena un inferno e l’uomo si convince di aver subito un´ingiustizia al punto da volere delle scuse dallo Stato. Naturalmente nessuno gli chiederà scusa, e per questo lui isserà la bandiera a stelle e strisce al contrario, manifestando così l´ingiustizia subita e il dolore che prova. L’eccidio in Iraq scatena poi una guerra di dimensioni minori, all’interno della casa del protagonista: la famiglia va in pezzi, la loro abitazione è invasa, prima, dai giornalisti e, infine, dai nazionalisti».

Com´è strutturato lo spettacolo e quali sono le tematiche alle quali ha voluto dare maggior risalto?
B. R.: «Questo spettacolo, molto complesso, è costruito come una tragedia, anzi un misto di commedia e tragedia. Non a caso l´autrice, Jane Martin, ha voluto che l´interprete principale fosse greco e si è ispirataalla tragedia greca, inserendo perfino il coro, perché – così come succedeva ai tempi in cui la Grecia combatteva contro i Persiani – oggi assistiamo nuovamente alla lotta tra Occidente e Medioriente, seppur in forme e modi altri. I temi individuati sono molteplici, sarebbe difficile spiegarli tutti. C’è la tragedia dei genitori che perdono un figlio – un’esperienza che si vive anche in Italia, purtroppo – in una guerra lontana e indecifrabile, fatta non per difendere la patria quanto per mantenere una serie di equilibri mondiali difficili da comprendere. Il secondo tema è quello del rapporto tra cittadino e Stato, soprattutto quando questo viene meno. Infine vi è la libertà di opinione, soprattutto nella nostra società occidentale – che si erge a democrazia più avanzata al mondo, ma se qualcuno osa mettersi contro si trasforma immediatamente in un traditore. Il teatro trasmette dubbi, come è giusto che sia: viviamo davvero in un sistema dove si possono esprimere le proprie opinioni liberamente?».

Quali sono le caratteristiche di Jane Martin che l´hanno spinta a portare in scena tre delle sue opere?
B. R.: «Jane Martin scrive dal 1982, ha prodotto circa 25 testi pubblicati negli Stati Uniti, ha vinto moltissimi premi della critica, è arrivata al secondo posto per un premio Pulitzer. In breve, è un personaggio conosciuto negli Usa sebbene non si sappia chi si celi dietro al suo pseudonimo. La cosa curiosa – e che mi ha colpito – delle sue opere è che utilizza il genere commedia per affrontare temi molto concreti e attuali, ribadendo quella che è sempre stata la funzione del teatro, ossia: parlare al e scrivere del proprio tempo. Jane Martin riesce a farlo grazie a una scrittura efficace ma leggera, affrontando temi importanti in modo tale da suscitare dubbi nello spettatore. Non parte mai da una tesi preconcetta ma lascia che sia il pubblico a dover prendere posizione. In Italia, il genere commedia è quasi del tutto scomparso o, al più, è ridotto al comico puro. Al contrario, nei Paesi anglosassoni la commedia, che ha radici più profonde – Shakespeare ne è stato maestro – è tuttora viva e, spesso, si contamina con la tragedia».

Ricollegandomi a quello che sta dicendo di Jane Martin – ovvero che lascia il pubblico libero di prendere posizione – in effetti, guardando lo spettacolo, mi è sembrato di notare una forte denuncia dell’autore/autrice contro gli Usa, i mass media e la loro invadenza in una tragedia tanto intima.
B. R: «Lo spettacolo ha dei propri orientamenti, ma i temi principali – della guerra giusta o ingiusta e del rapporto tra cittadino e Stato – sono lasciati al giudizio del pubblico perché il padre è un personaggio tremendo, un eroe nero, un simpatizzante di destra che è d´accordo con la guerra ma che, a un certo punto, capisce che questa guerra non ha alcun senso e allora si mette contro tutti – in primis lo Stato – vivendo, di conseguenza, una sua disgregazione, una sua dissoluzione interiore. Proprio questa ambiguità del personaggio lascia gli spettatori nel dubbio. Certo, poi c´è un giudizio negativo sui mass media che entrano nelle case, un giudizio altrettanto negativo nei confronti dei nazionalisti – intransigenti molto più dei “nemici” che stanno combattendo – però sul tema generale, Martin lascia una grande libertà di opinione al pubblico».

Tornando alla resa scenica, oltre alla struttura a tragedia con una forte presenza del coro, ho notato un taglio tipicamente cinematografico.
B. R: «C´è un taglio cinematografico in tutti i testi di Jane Martin perché non dimentichiamoci che, negli Stati Uniti, c´è una grande osmosi tra chi scrive per il teatro e chi lo fa per il cinema. In molte occasionisono gli sceneggiatori stessi a scrivere pièce o, al contrario, sono i drammaturghi a trasformarsi in sceneggiatori. Tutto questo favorisce una grande vitalità e il taglio cinematografico degli spettacoli, costruiti su piani sequenza. Certo, rispetto all´ambientazione noi abbiamo apportato delle notevoli variazioni, scegliendo di lasciare in scena solo una sedia. Abbiamo tolto gli oggetti per sostituirli con pietre, perché la pietra – riferendoci al teatro greco antico – è la cosa più antica che c´è sulla Terra ed è anche quella sulla quale si sedevano gli spettatori ad Atene. La pietra, quindi, non solo mimeticamente come oggetto, come gioco teatrale, ma anche come fonte di sonorità: le pietre vengono percosse, strofinate e utilizzate in tutti i modi possibili. Si può ben capire come ci sia stata anche una grossa ricerca ritmica da parte nostra, della quale fa parte anche il suono prodotto dalla macchina che cuce la bandiera – elemento non presente nel testo originale, ma precisa scelta registica, come il fatto che sia mostrata solamente alla fine dello spettacolo. Per l’intera pièce viene cucita da una corifea che diventa una moira – colei che tesse il destino».

Come è avvenuta la scelta del cast?
B. R.
: «In scena ci sono sette attori, mentre nel testo originale erano nove: abbiamo contratto il coro e cercato di rappresentare, in qualche modo, due generazioni: quella degli anziani, dei padri, e quella più
giovane. I ragazzi sono i membri del coro ma anche quelli che vanno a fare la guerra o che lavorano per i mass media. Sono molto contento di questa compagnia: sono tutti molto bravi. Ci siamo Ludovica Modugno, Alarico Salaroli e io, che rappresentiamo gli “anziani”, e poi una serie di attori giovani, come Aram Kian, Elio D´Alessandro, Celeste Gugliandolo e Francesco Puleo. Anche questa contminazione e il conflitto generazionale
fanno parte del sottotesto e sono un aspetto che a me interessava molto».

Vuole darci la sua opinione sulla drammaturgia italiana odierna?
B. R.: «In questo momento in Italia la drammaturgia contemporanea non è molto considerata. Secondo me, viviamo in un Paese di vecchi e, giustamente, i giovani se ne stanno rendendo conto: per loro non c´è futuro. L’Italia è in mano ai vecchi e i vecchi sono poco curiosi. Il nostro è un Paese privo di interessi e che non produce nuove drammaturgie. La drammaturgia contemporanea, oggi, è qualcosa di disdicevole, un pericolo per il Paese. Ormai si guarda solo indietro e non più avanti. Questa è una difficoltà che ho io, come molti altri che amano il teatro che parla dell´oggi. Forse supereremo anche questa, ma non so».