Raccontare il silenzio

Corrado D’Elia esplora il genio di Beethoven e il dramma della sua sordità: un monologo intenso. Ma un po’ troppo serioso.

Per i 250 anni dalla nascita di Ludwig van Beethoven, un omaggio ci voleva proprio. Anche perché Covid-19 ha azzoppato tutte le celebrazioni: perfino nella nativa Bonn e nel resto della Germania. Per questo ha fatto benissimo Corrado D’Elia a mettere in scena un monologo (sempre più difficile fare teatro in altro modo), Io, Ludwig van Beethoven, al Teatro Litta di Milano, in cui, con la sua solita energia, restituisce al musicista la sua inarrivabile statura.

D’Elia spiega la singolarità della sua musica, gli alti e bassi della sua carriera, la sua difficile infanzia d’enfant prodige. E poi il grande dramma della sua vita: la sordità. In realtà, nel museo-casa natale di Bonn, spiegano bene che non si trattò di un silenzio improvviso o assoluto. Piuttosto di una lenta discesa all’inferno, cominciata addirittura in giovinezza, che trasformò i suoni in rumori, in una progressiva perdita: prima della vastità della gamma delle frequenze udibili, poi della capacità tout court d’ascolto. Questo rende ancor più sorprendente il fatto che Beethoven abbia composto una musica così straordinaria, perché per lungo tempo, anziché il silenzio, ascoltò rumori orribili, fischi e ronzii. E non impazzì.

Nel museo è esposta una serie di grandi corni acustici (altro che cornetti) che rivelano quanto il problema del compositore non fosse un mistero, benché molti lo ignorassero. Al tempo stesso si sfata un mito che D’Elia, però, in parte, riprende: quello del pessimo carattere di Beethoven. Nel celebre Testamento di Heiligenstadt, una lettera ai fratelli del 1802, che l’attore e regista cita, il musicista chiarisce: «Pur essendo dotato di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine. E se talvolta ho deciso di non dare peso alla mia infermità, ahimè, con quanta crudeltà sono stato allora ricacciato indietro dalla triste, rinnovata esperienza della debolezza del mio udito. Tuttavia, non mi riusciva di dire alla gente: “Parlate più forte, gridate, perché sono sordo”».

La verità è che al mito della sua scontrosità ha contribuito anche il celebre busto in bronzo di Franz Klein, ottenuto da un calco del volto dell’artista vivente nel 1812: la sofferenza di restare sotto la soffocante colata di gesso impresse alla maschera un’espressione corrucciata e sofferta che da allora, per noi, coincide con l’anima stessa di Beethoven. Tutto questo per dire che il monologo di Corrado D’Elia è recitato benissimo, intenso, commovente, ricco. Ma assomiglia molto ai precedenti dello stesso autore: manca cioè di quel briciolo di ironia e autoironia che butta giù dal piedistallo sia il personaggio narrato sia il narratore e che evita un’identificazione, sempre un po’ pericolosa. Questa volta la musica assordante che piace tanto al regista ci sta. Viene solo da chiedersi che cosa succederebbe se D’Elia decidesse di raccontare un uomo mite. Che sussurra, anziché urlare alla vita.

Lo spettacolo è in scena
MTM Teatro Litta

Corso Magenta, 24
dal 13 al 25 ottobre 2020

Io, Ludwig van Beethoven
progetto e regia di Corrado d’Elia
con Corrado d’Elia
tecnico luci Christian Laface
tecnico audio Gabriele Copes
grafica Chiara Salvucci
foto di scena Angelo Redaelli
immagine di locandina Laila Pozzo
organizzazione Carlotta Spitaleri e Brigitte Elise Schiavon
produzione Compagnia Corrado d’Elia
(durata 1 h)