Dopo Dissonorata e La Borto, Saverio La Ruina ci regala ancora un fascinoso, poetico monologo. Il linguaggio non è più il suo abituale lucano-calabrese, ma un italiano dialettale, che della terra d’origine mantiene solo qualche frammento, e la cadenza musicale.

Abbandonando, almeno per il momento, il tema dell’emarginazione e la violenza sulla donna, Saverio indirizza la sua denuncia su un inquietante, vergognoso capitolo della storia recente, dimenticato, e sconosciuto ai più: le vicissitudini di qualche centinaio di civili italiani, per lo più donne e bambini, che alla fine della seconda guerra mondiale si trovano in Albania, e non vengono rimpatriati con i militari ma, incredibilmente, per quasi cinquant’anni, rimangono confinati nei campi di concentramento albanesi, senza che il governo italiano, né le istituzioni internazionali, facciano nulla. E la sua denuncia, anche in questo caso, è affidata alla voce di un personaggio mite e oppresso, come le donne dei due lavori precedenti.

L’espediente drammaturgico, si parva licet componere magnis, è quello stesso di Euripide che, nelle Troiane, sceglie di raccontare gli orrori della guerra, non soltanto dal punto di vista dei vinti, ma addirittura delle loro donne, doppiamente umiliate e offese.

Ricomponendo varie storie raccolte dal vivo, La Ruina crea il personaggio di Tonino Cantisani, nato poco dopo che suo padre, un soldato italiano, è stato rimpatriato. I primi quarant’anni della sua vita si svolgono “in quel campo grigio, pieno di fango, in mezzo a quelle uniformi grigie, grigie e verdi dello stesso colore della merda, a quella gente sempre depressa, che aveva pure ragione a essere sempre depressa”. Eppure Tonino non è un depresso né un perdente. Reagisce a quel grigio creando nella sua fantasia un mondo pieno di colori, di sogni, di affetti veri o vagheggiati; dal sarto mastu Giuvannu, impara quell’italiano dialettale in cui si esprime, e anche il mestiere. Saprà contrastare i perversi meccanismi di delazione in vigore nel campo, sopportando con coraggio anche la tortura, pur di non avallare le false accuse rivolte ad un amico. Malgrado questi risvolti truculenti, il racconto si snoda in leggerezza, temperato da quell’ironia, ora ingenua e disarmante, ora maliziosa, cui il registro attorale di Saverio ci ha abituato, e si risolve spesso in poesia.

Sollevandosi dal fango del campo, la narrazione affronta i temi dell’amore, dell’amicizia, con una levità e tenerezza di toni che, a tratti, fa pensare ai dialoghi fra il Piccolo Principe e la Volpe; come nel commiato del sarto, mastu Giuvannu che, trascinato via dalla polizia, affida a Tonino un viatico importante quanto impalpabile: c’è un colore che dovrà trovare, e impossessarsene.

“E qual è sto colore?”, faccio io.

“Il colore della ragazza con la faccia gentile”, fa lui.

“E qual è il colore della ragazza con la faccia gentile?”.

“Tocca a te scoprirlo”, fa lui.

Un amore, il matrimonio, un figlio; un lungo viaggio per ritrovare quel padre che non ha mai conosciuto; la delusione per il confronto fra i sogni e la realtà; per una terra ove rientra da profugo, ma che non lo riconosce. Tuttavia il finale è ancora una dichiarazione d’amore filiale e di patria.

C’era il pericolo dell’enfasi, della retorica, e invece la varietà dei temi, la misura, l’armonia della scrittura e del porgere di Saverio fa di Italianesi un delizioso, commosso omaggio all’identità italiana, nei centocinquanta anni dell’unità.

Lumpatius Vagabundus