Muri: chiusi fuori e chiusi dentro

teatri-pistoiaA Teatri di Confine arriva il pluripremiato Saverio La Ruina con Italianesi. Uno spettacolo che racconta un ieri tristemente simile all’oggi.

Compostezza e pathos, dignità e leggerezza, poesia e dramma: nei testi e nelle interpretazioni di Saverio La Ruina – attore, drammaturgo e regista – c’è tutto. Uno scorrere di parole da cantore di storie, quell’affabulazione propria di noi del sud, una montagna russa di picchi che potrebbero assurgere a tragicità del quotidiano se non fossero temperati da cascate di ironia, quelle battute spiazzanti perché ovvie, nella loro semplicità popolare, come l’affermazione del poliziotto che, di fronte al protagonista di Italianesi che rivendica il suo essere italiano, risponde: «Sei nato in Albania, hai vissuto lì 40 anni, parli albanese. Albanese sei!». “Eh, già”.
La storia raccontata nello spettacolo è ormai nota: quella di un migliaio di italiani – soldati e civili – che, finita la Seconda guerra mondiale, sono stati internati in un campo di prigionia albanese. Prima, c’erano stati un’occupazione militare e un conflitto bellico, e noi – i fascisti (è bene ricordarlo) – eravamo gli invasori. Alla fine della guerra, era scesa la cortina di ferro e un muro aveva diviso in due l’Europa, impedendo a chiunque di oltrepassarlo se non a rischio della propria vita. È in questo campo di prigionia grigio e verde «come la merda», che cresce il protagonista, giocando a pallone, imparando il mestiere di sarto, innamorandosi e poi sposando una «ragazza gentile, dai capelli gialli come il grano e gli occhi azzurri come il cielo», che accetterà di essere internata per potergli stare accanto. Un’intera esistenza vissuta in baracche squallide, fredde d’inverno e arroventate d’estate, dove i prigionieri dovevano chiedere il permesso anche per andare a pisciare, dove il fango grigio del campo si confondeva con il plumbeo del cielo, dove Tonino, sognando l’Italia, riusciva comunque a colorare quel piccolo universo di sopraffazione e violenze con i colori sgargianti del nostro cielo, del nostro mare, delle nostre città d’arte. Il risveglio, quello vero, avverrà solo alla caduta del Muro, quando si scoprirà, lui prigioniero in Albania perché figlio di un italiano (e, quindi, italiano per ius sanguinis), di essere solo un altro immigrato albanese agli occhi degli italiani.
Testo e interpretazioni intelligenti, con brevi interventi musicali – filmici nel loro accompagnamento senza forzature – e un uso delle luci puntuale e preciso al servizio delle emozioni e delle espressioni di Tonino, solo in scena eppure circondato da un piccolo universo di persone, che La Ruina riesce a caratterizzare con un semplice gesto (bella l’immagine della madre che si stringe il capo con mani tremanti), un cambiamento di tono, una forma dialettale, una leggera increspatura della voce.
Ieri come oggi, scrivevamo nel sommario. Sì, perché per un Muro abbattuto, in questi 26 anni, se ne sono costruiti cento. Gli esseri umani non hanno imparato nulla dalla loro storia. Gli ebrei, che hanno dovuto costruire il muro di Varsavia, oggi lo impongono ai palestinesi nei territori occupati. Gli statunitensi, che hanno edificato il proprio Stato sull’immigrazione, oggi applaudono a un Donald Trump che promette una barriera invalicabile tra gli States e il Messico. L’Europa, divisa per quarant’anni, che pensa di erigere nuove barriere (come in Ungheria); valuta la possibilità di usare i marines contro i ripudiati della Terra (sembrerebbe una barzelletta se non fosse l’atroce verità); vede la Germania – dimentica di aver succhiato il sangue all’Europa con due conflitti mondiali e imponendo una riunificazione a tappe forzate del proprio territorio – comportarsi in maniera draconiana contro la Grecia. E l’Italia, infine, da sempre Paese di emigranti, tronfia dei suoi leader politici che accusano gli immigrati di essere dei delinquenti (noi, che esportiamo la ‘Ndrangheta perfino in Australia e che abbiamo insanguinato gli Us con i nostri mafiosi), o di voler emigrare per fini economici e non perché perseguitati. Come se la causa economica non fosse altrettanto importante, come se gli italiani che andavano in Belgio a lavorare nelle miniere, negli Stati Uniti o in Argentina, non ne avessero avuto il diritto solo perché non erano motivati da una persecuzione religiosa o politica ma dalla fame. E da che pulpito viene la predica? Da quell’Europa e da quegli Stati Uniti grassi e opulenti che bombardano, armano, depredano risorse naturali, convertono i campi in monocolture, producono da oltre un secolo tanta di quella CO2 da causare quel cambiamento climatico che porterà a inondazioni, siccità e carestie.
Mutatis mutandi, come scriveva Tomasi di Lampedusa: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”.

Lo spettacolo è andato in scena nell’ambito di Teatri di Confine 2015:
Villa di Scornio, Sala delle Carrozze

Pistoia
lunedì 29 giugno, ore 21.30

Saverio La Ruina in:
Italianesi
di Saverio La Ruina
musiche originali Roberto Cherillo
disegno luci Dario De Luca
produzione Scena Verticale
con il sostegno di Mibact/Regione Calabria