Radicalità e amore

Dopo averne seguito il percorso e le sue scelte musicali per lungo tempo, abbiamo avuto l’onore di incontrare uno dei direttori d’orchestra prediletti della nostra redazione: Jean-Philippe Dubor. L’occasione, nata dall’ultimo concerto diretto dal Nostro (una straordinaria Messa di Gloria in re maggiore di Puccini alla Chapelle de la Trinité di Lione, introdotta dall’ouverture de La forza del destino di Verdi), ci ha permesso di confrontarci con un grande amante del Romaticismo, capace di imporsi come una figura di riferimento per un rinnovato interesse verso quello che, più che un periodo storico, potremmo definire come una straordinaria sensibilità artistica

Incontriamo Jean-Philippe Dubor in un elegante caffè lionese, in una piovosa mattina di inizio febbraio. Direttore d’orchestra carismatico, figura di riferimento del rinnovato interesse verso il Romanticismo musicale che si sta diffondendo qui in Francia, Jean-Philippe Dubor ci dedica due ampie ore di intensa conversazione. La vita e l’arte si fondono in un discorso forte, vivo, che ci dischiude le porte di una passione che è quella di una vita (la direzione d’orchestra e del coro) tratteggiando un lungo percorso condotto sempre con grande coerenza.

Jean-Philippe Dubor, come è arrivato alla musica e alla direzione d’orchestra? È stata una scelta ponderata o la passione l’ha folgorata fin da giovanissimo?
Jean-Philippe Dubor: «
Non saprei dire quando la musica è entrata nella mia vita. Non mi sembra di ricordare un aneddoto particolare, un momento elettivo che mi ha “illuminato” e che mi ha fatto capire quale fosse la mia strada. Quello che posso dirle è che, fin da bambino, fin dai 4-5 anni, la musica è stata presente nella mia quotidianità. I miei gusti musicali, perfezionatisi e rafforzatisi nel corso della mia formazione successiva, possedevano già una sorta di imprinting grazie a quella musica ascoltata tra le pareti di casa».

Una passione, quella per la musica, che non si è mai spenta nella sua vita, fino a diventare quasi un fuoco che necessitava di tutto lo spazio disponibile per potersi esprimere. Ecco che una carriera già avviata in un certo ambito lascia lo spazio alla “volontà artistica”
JPD: «
Sì, io sono un medico, figlio di due psichiatri. Ho praticato la mia attività per anni prima di troncare il nodo gordiano. Fu una scelta difficile, non voluta e costruita per anni, e che rappresentò anche un grande azzardo. Diciamo che, per stemperare un poco la questione, e collegandomi a quello che dicevamo prima, la ragione e la colpa di quella scelta va cercata anche e soprattutto in quei dischi, ascoltati proprio in famiglia».

Noi l’abbiamo seguita per diverso tempo, e siamo rimasti colpiti dalla fedeltà ad un certo patrimonio musicale e all’utilizzo di uno strumento che è la sua personale orchestra. Ci può riassumere, in qualche parola, il percorso del suo ensemble e indicarci quali sono le prospettive future?
JPD: «
La mia volontà di dirigere musiche e voci si è materializzata, nel 1991, con la creazione di un vero e proprio strumento che veicolasse le mie personali preferenze musicali. Nel 1994 ho incominciato a introdurre alcuni artisti professionisti ma è passato molto tempo prima che si passasse ad un professionismo esclusivo (passaggio avvenuto nel 2007, ndt). Quello strumento, che nel corso degli anni ha cambiato vari nomi, è rimasto per me la vera ragione del mio vivere artistico. Tra il 2012 e il 2014 quell’insieme di musicisti e di coristi prese il nome di “Ensemble 7e sens”, prima di divenire “Les siècles romantiques” e di trovare casa alla Chapelle de le Trinité. Con questo ultimo passaggio io posso oggi, finalmente, definirmi un direttore d’orchestra a tempo pieno. Liberatomi dell’aspetto burocratico, posso dedicarmi anima e corpo alla mia musica, alla mia ricerca e alle mie creazioni. “Les grands concerts”, l’istituzione che ospita il mio ensemble, mi ha liberato di un peso difficile da portare e il mio lavoro si esprime con grande libertà e tranquillità. Per questo motivo, ringrazio Eric Desnoues (direttore de “Les grands concerts”, ndt), persona straordinaria con la quale lavoro alla programmazione artistica. Tengo a precisare che la nostra attività è sostenuta e può esistere grazie ai numerosi mecenati che credono da anni nei nostri progetti. Non posso ancora anticiparle nulla sulla programmazione dell’anno prossimo. Quello che posso dirle è che l’anno prossimo passeremo da tre a quattro produzioni e metteremo l’accento, in particolar modo, sulla distribuzione e sulla vendita dei concerti. Continueremo, inoltre, con i progetti che abbiamo già intrapreso con grande successo, come la settimana di musica romantica a Genas e le “Les nuits musicales” d’Uzes».

Lei non lo sa ma le sue scelte musicali, la sua musica, hanno avuto un effetto terapeutico nei miei confronti, soprattutto in un periodo particolarmente difficile della mia vita. Crede che la musica possegga un valore terapeutico?
JPD: «
Quello che dice è molto bello e mi fa molto piacere. Io credo che sia proprio questo il fondo, la ragione profonda della musica: arrecare del bene. La musica è un’arte che giunge a tutti: chiunque può riconoscere una melodia triste ed una melodia gioiosa, senza alcun bisogno di una formazione musicale. E ciò porta ad un mutamento dell’animo. La musica è un linguaggio universale e la mia professione è una professione molto fortunata. Io mi trovo in una posizione nella quale posso provocare emozioni nel pubblico. A ben vedere, io non credo di aver mai smesso la mia attività di medico. Oggi io curo le persone, le aiuto a stabilizzarne gli umori, e lo faccio proprio attraverso la musica. La musica è universale e terapeutica. E se le ho fatto del bene, ne sono molto felice».

Da lungo tempo lei è anche organista titolare della chiesa di Saint-Polycarpe, antico luogo di culto degli Oratoriani che si trova sul versante della collina della Croix-Rousse. La nomina risale all’inizio degli anni Ottanta e lei mantiene, ancora oggi, questo ruolo che le è molto caro
JPD: «
Sì, essere organista titolare di questa chiesa è una funzione che ho molto a cuore. Questa chiesa, incastonata nelle “pentes” della Croix-Rousse, rappresenta, per me, un luogo intimo, importante, nel quale mi confronto direttamente con lo strumento. Sa, il lavoro di direttore d’orchestra provoca un doppio movimento di avvicinamento e di allontanamento. Si è lì, a contatto con la musica e, allo stesso tempo, la si domina con distacco. Suonare in questa parrocchia mi permette di ritrovare l’aspetto materiale, di ritrovare lo strumento e di partecipare alla mia fede cristiana. Uno dei miei autori preferiti è senza alcun dubbio Anton Bruckner. Si dice che ascoltare una delle sue sinfonie equivalga a fare un’esperienza dell’aldilà, del trascendente. Lo stesso Bruckner definiva le proprie sinfonie come delle “messe senza parole”. Ecco, la mia fede si esprime attraverso l’aspetto musicale, a contatto diretto con lo strumento. Potrei dire che la musica è il canale che conduce ad una spiritualità universale, poco importa di quale segno essa sia. Per quanto mi riguarda quella spiritualità è di segno cattolico ma credo profondamente che la forza della musica, e il suo linguaggio universale, siano profondamente spirituali e che ognuno possa farne un’esperienza trascendentale».

Il suo interesse per la musica romantica l’ha portata a presentare, con grande forza e decisione, tutto un repertorio a lei molto caro, proponendo delle grandi opere conosciute dal pubblico, ma anche straordinarie pepite che attendevano una riscoperta e la giusta definizione del loro valore. Come si esprime questa sua passione nella ricerca e nella scelta dei lavori da presentare?
JPD: «
Il lavoro del direttore artistico, del direttore d’orchestra e del coro non si riduce semplicemente a presentare opere da lui amate. Questo lavoro è un vero e proprio lavoro di “ri-creazione”, una nuova e profonda revisione e produzione di un nuovo senso. Prendiamo un esempio: il Requiem di Verdi. Sappiamo che l’opera è stata creata dal genio di Busseto tra il 1873 e il 1874. Bene, queste date sono fatti inattaccabili ma vi è poi un secondo momento di creazione, una nuova rinascita dell’opera. E quel momento avviene quando si decide di prendere in mano quell’opera, lavorandola e essendone lavorati ogni giorno, ogni momento, fino a quando quell’opera fiorisce, ancora una volta e in modo così straordinario, nell’esecuzione finale, nella presentazione pubblica. Quando scelgo un’opera, sono ben conscio che la sua gestazione è costata lavoro e fatica e, prendendola tra le mie mani, la accolgo come una figlia. La gestazione dell’opera è certamente terminata e io assumo il ruolo di colui che la adotta (e, lo ammetto, anche di colui che la usurpa), portandola in me, ma non esattamente come se ne fossi io il creatore iniziale. Diciamo che mi sento un marsupiale, accolgo contro, ma comunque, dentro di me, quell’opera che subisce una seconda gestazione».

Ammetto che è un vero piacere discutere con lei qui, in questo tranquillo caffè. L’abbiamo sempre vista sul podio, nel pieno del fervore artistico, intento, direi, più che nella creazione dell’opera, nello sforzo, straordinario, incessante, di farne emergere la bellezza, la perfezione. Chiunque abbia assistito ad uno dei suoi concerti, serba l’immagine di un direttore carismatico ed intransigente, la cui direzione non si limita ad essere un semplice controllo e gestione delle risorse ma un vero e proprio combattimento
JPD: «
Quando sono sul podio, mi trovo a contatto con tutti i miei musicisti. Sì, dico “miei” perché li conosco personalmente, uno ad uno, conosco le loro vite e i loro problemi, le loro passioni, ciò che li anima e li turba. È solamente in questo modo che io posso concepire una direzione. Capisco perfettamente quello che lei vuole dire quando parla di “combattimento”, ma io trovo che non sia pienamente corretto. Indubbiamente vi è un aspetto vigoroso che si palesa durante l’esecuzione. Ma, personalmente, mi sento più a mio agio considerando il mio intervento più come una relazione amorosa piuttosto che una battaglia. Non vi è conflitto, sfida: io non do battaglia, io amo. Mentre dirigo, io cerco le persone, ogni singolo musicista, lo cerco con gli occhi, lo chiamo a me. Il fatto che vi sia un rapporto personale che va al di là del semplice rapporto lavorativo, mi permette di sentire quel musicista come una persona cara, e di intervenire insieme a lui per la creazione dell’opera finale. Vi è una vera e propria osmosi tra me e l’insieme degli artisti che lavorano con me. Non mi sento un datore di lavoro, il capo di un’azienda e nemmeno un manager. Io sono l’amante dei miei artisti. La mia missione finale è una creazione globale: l’essere in fase con tutto l’organico (che può essere estremamente numeroso, raggiungendo più di un centinaio tra musicisti e coristi). E trovo che la metafora di “fare l’amore” con l’orchestra e i cori, al di là dell’aspetto romantico, traduca molto bene ciò che per me significa “fare musica”. Al termine del concerto, la fatica fisica è ben presente ma essa è accompagnata da un elevato tasso di endorfina. Lo sforzo è uno sforzo globale: ognuno ha dato tutto e questo è dovuto proprio a quel rapporto intenso con ogni singolo di cui parlavo poc’anzi. È proprio per questo motivo che non potrei dirigere un’orchestra che non conosco».

Che rapporto intercorre tra lei e la natura?
JPD: «
Amo profondamente la natura. Spesso sento il bisogno di ritornare a lei per trovare le giuste energie per il mio lavoro. Amo lavorare nella natura, fondermi con lei. Hölderlin parlava di una comunione profonda con la natura, un fondersi in essa non sentendo più i propri limiti, entrando in risonanza con il tutto. Credo fortemente in questo movimento universale che per me è il momento nel quale si sfiora il divino. Non vi è nulla di drammatico o di impetuoso. Giungere a questa comunione proprio come si ridiscende sulla terra alla fine del Requiem di Verdi: delicatamente, inevitabilmente».

Una domanda forse fastidiosa, ma che non posso non porle. Hai mai pensato di intraprendere una carriera anche come compositore?
JPD: «
La composizione non mi interessa, glielo dico sinceramente. Certo, mi sono posto la questione diverse volte, ma la mia scelta è una scelta che potrei definire come radicale. Servo la musica proprio come si serve la Patria: c’è una necessità vitale, completa, una disponibilità senza increspature. Non si serve la Patria a metà. Ecco perché concepisco il mio lavoro come una missione vitale, l’incarnazione di colui che si intromette tra il compositore e il fruitore dell’opera. In quanto direttore io servo il compositore, la sua opera, e lo faccio in una prospettiva radicale, di “estrazione del succo”, giungendo fino al midollo di quella composizione. E per fare ciò non è possibile avere un approccio, per così dire, “tiepido”. Io mi dono, completamente, e credo che questo si veda. Ma questo aspetto radicale, questa energia eccessiva può disturbare. Spesso ho avuto, infatti, l’impressione di creare una sorta di imbarazzo, di far paura. Ma questo è il mio approccio, vero, sincero. E totale».

E noi le siamo infinitamente grati per questo.

Nous avons rencontré Jean-Philippe Dubor, chef d’orchestre de l’ensemble « Les Siècles Romantiques », en résidence depuis 2014 à la Chapelle de la Trinité de Lyon. Une longue discussion autour de sa vie, de son parcours professionnel et, notamment, de ce que signifie être chef d’orchestre et de chœurs : être radical, faire l’amour, vivre profondément la musique. Jean-Philippe Dubor nous a offert un cadeau en partageant sa vision de l’art.