Mistero e pathos di una tragedia

 

Dopo il Parsifal del 2011, le due versioni dell’Orfeo ed Euridice del 2014, Neither sempre dello stesso anno e Moses und Aron del 2015, Romeo Castellucci ritorna a lavorare con il mondo dell’opera e lo fa creando una Jeanne au bûcher memorabile. L’opera tragica e celebrativa di Honegger e Claudel diviene luogo di scoperta e di estroflessione della passione solitaria, terribile apertura sull’abisso della rappresentazione

Molto è (già) stato scritto su Jeanne au bûcher, l’ultima fatica di Romeo Castellucci presentata all’Opéra di Lione. E questo “molto” è stato, troppo spesso, violento, eccessivo, scandalizzato, interessato solamente a ottenere una risposta a domande tanto semplici quanto lontane dal suo lavoro. Noi abbiamo tentato di avvicinarci a questa grandiosa opera, cercando di annusare l’estetica del grande regista. Speriamo di non aver sbagliato. Troppo.

Il sipario si alza e lo spettatore si ritrova scaraventato in un passato indefinibile, ma riconoscibile: qui tutto sa di ricordi, di soprusi, di cose passate, di coccoina e di fatiscenza. Si entra nel silenzio di un compito in classe, un silenzio che si spezza poco dopo. La campanella suona e le studentesse, come la stessa professoressa, lasciano l’aula per ritrovare le singole quotidianità casalinghe. La stanza rimane vuota, per diversi istanti, prima dell’entrata, dimessa e quasi totalmente priva di interesse, del bidello atto a pulire i locali. Il lavoro viene eseguito, ma in maniera blanda, quasi egli fosse trascinato dalla propria melanconica vita. I pochi movimenti, privi di interesse, rappresentano l’unica cosa che avviene sulla scena e “lo spettatore si aggrappa […] ad ogni dettaglio della scena, a ogni minimo gesto” dell’attore (Dorota Semenowicz, Le cattive immagini, in Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, a cura di Piersandra di Matteo, Cronopio, Napoli, 2015, p.97) non tanto per cercarne un senso, ma come unico drammatico appiglio possibile per non perdere quell’opera. Ecco che in questo panorama avviene un piccolo scarto rispetto alla normalità, rispetto, cioè, a ciò che ogni spettatore si potrebbe aspettare. Il bidello inizia a spingere un banco, portandolo fuori dall’aula, nel corridoio. La sua azione è chiara e non possiede sbavature, o qualcosa che potrebbe attivare un’interrogazione da parte dello spettatore: l’azione è, infatti, eseguita in maniera ordinata e precisa. Egli rientra in aula, ed eccolo ripetere l’azione, decine di volte, in un crescendo di nervosismo e di pathos che il pubblico sembra non percepire immediatamente, stigmatizzandolo, forse, a semplice “bizzarria teatrale”. Questa lunga azione, priva della musica e di qualsiasi voce, si palesa tanto come inspiegabile, quando come necessità: quella stanza deve essere svuotata. Il pubblico rumoreggia, applaude polemicamente, forse preso in contropiede da un’azione vuota che si svolge davanti agli occhi, stizzito da un non pieno che provoca un effetto di sgradevole straniamento. Ecco che, finalmente, dopo quindici minuti di quello che potremmo superficialmente definire come “vuoto”, il coro interviene e la musica può iniziare. Siamo qui di fronte a ciò che Marie Hélène Brousse ha descritto come “l’esperienza del sollievo, del ritorno alla normalità” (che in questo caso è una normalità scenica: qualcosa avviene sulla scena e quel qualcosa lo possiamo identificare come un’azione teatrale) (cfr. Marie Hélène Brousse. Il teatro degli oggetti. Sguardo, voce, escrementi, in Toccare il reale, cit., p. 78). La musica di Honegger, magistralmente diretta da Kazushi Ono, dimostra immediatamente degli accenni epici, ed i cori (le voci dal cielo) fanno piombare l’atmosfera straniante e incomprensibile nell’abisso della storia. Le undici scene di Jeanne au bûcher si svolgono in un’estrema povertà scenografica, ma è proprio qui che avviene il miracolo incarnato della metafisica epidermiale artaudiana. La scenografia non è vuota, ma è certamente non-piena: essa si sviluppa su di una semplice pelle che è incisa per accogliere due aperture, quella dell’aula e quella del corridoio. Ma se la seconda viene sfruttata, riempita, resa quasi inaccessibile a causa dell’affastellamento di sedie e banchi (vera e propria creazione aleatoria e potente), la grande stanza, svuotata della sua funzione primaria (quella di aula scolastica), non mostra inizialmente le sue possibilità, ciò che, cioè, vi è di sconosciuto e che può incarnarsi in un attuale, ma solamente con il passare dei minuti (Castellucci è un maestro della profondità del tempo) la pelle di questa stanza mostra tutta la sua complessità. L’opera di Honegger e di Claudel è molto breve e se togliamo il prologo silenzioso, rimane solamente un’ora: questo tempo possiede una pregnanza inquietante, la cui solidità, appiccicosa, da penetrare, inattaccabile, è avvolgente. Ma nulla vi è della tenerezza, dell’abbraccio, in questo avvincere: la stretta è claustrofobica, tragica, senza via di fuga.

Il regista decide di estromettere visivamente i cantanti (essi si trovano infatti nel golfo mistico, insieme all’orchestra, oppure nei plachi, vicino alla scena) ed essi rimangono immersi nel buio, proprio come avviene per il coro. L’aspetto vocale si dà senza che si possa vedere colui che produce tale suono. Siamo in un’estetica dove non è certo l’invisibile che si impone, ma un visibile sinestetico, un suono che prende corpo e che agisce nell’azione teatrale. Estromettendo visivamente i cantanti, il regista decide di far agire attori, creando un taglio all’interno della narrazione che raddoppia i piani narrativi, richiedendo un grande sforzo allo spettatore. E l’attrice che mantiene tutta l’opera è la straordinaria Audrey Bonnet, il bidello di questa vecchia scuola che inizia un percorso duplice di scavo e di escavazione, di scoperta di ciò che vi è sulla pelle della scena, e del personaggio che lui è. La copertura, le piastrelle che non vediamo ma che compongono quello strato infimo, invisibile sul quale l’attrice agisce, devono essere rimosse, ancora una volta per una necessità la cui comprensione e le cui motivazioni ci sono precluse. La scoperta di stracci, della bandiera nazionale e dell’invincibile spada sono accompagnati dalla messa a nudo del proprio personaggio. Audrey Bonnet è Giovanna d’Arco ma lo è proprio perché ella è partita da quell’essere bidello che, all’interno di una follia incomprensibile per il resto della società (noi), si estroflette in Giovanna d’Arco. L’eroina francese si palesa come tale solo verso la fine dell’opera, come un’epifania che irrompe dopo un lungo e faticoso cammino concepito all’interno di un processo vissuto come un flashback ma solamente a livello acustico.

Jeanne au bûcher è un lavoro tragico, prezioso, che lavora l’opera attraverso elisioni o, come ha affermato lo stesso Castellucci, “amnesie” del personaggio storico e dell’opera sulla quale si basa. Un’importante opera politica di uno straordinario regista che ha scelto di distruggere le simbologie per giungere al corpo, pesante, mortale, sporco, della persona stessa. Questo è (forse) il teatro di Romeo Castellucci. E noi gli siamo grati per quello che ci offre.

Spettacolo visto sabato 21 gennaio 2017

Romeo Castellucci propose un opéra tragique, intense, bouleversante. Jeanne au bûcher présentée à l’Opéra de Lyon est une évagination d’une passion solitaire, une coupure à l’intérieur du vivant qui fait germer une autre narration. La violence imaginative de Castellucci plonge l’opéra d’Honegger et de Claudel dans l’abîme de l’irrésolu, de l’unheimlich pour un résultat sublime.

Lo spettacolo va in scena:
Opéra de Lyon
Place de la Comédie – Lione
sabato 21, lunedì 23, mercoledì 25, venerdì 27 e martedì 31 gennaio, giovedì 2 e venerdì 3 febbraio 2017 ore 20.00
domenica  29 gennaio 2017 ore 16.00

L’Opéra de Lyon in coproduzione con l’Opéra de Perm e la Monnaie / De Munt, presentano
Jeanne au bûcher
oratorio drammatico in 11 scene e un prologo, 1938
musiche di Arthur Honegger
libretto di Paul Claudel
in francese

direttore d’orchestra Kazushi Ono
regia, scene, costumi e luci Romeo Castellucci
drammaturgia Piersandra Di Matteo
collaboratrice artistica Silvia Costa

Jeanne d’Arc Audrey Bonnet
Frère Dominique Denis Podalydès
la Vergine Ilse Eerens
Marguerite Valentine Lemercier
Catherine Marie Karall
Pécus Sophie Lou
soprano solista coro Maki Nakanishi
tenore solista coro Brian Bruce
baritono-basso solista coro Kwang Soun Kim
una voce, baritono-basso coro Paolo Stupenengo
Héraut II, baritono-basso coro Paul-Henry Vila
tenore solista (una voce, Porcus, Héraut I, Le Clerc) Jean-Noël Briend
primo recitante (Héraut III, L’Ane, Bedford, Jean de Luxembourg) Louka Petit-Taborelli
secondo recitante (il bidello, Regnault de Chartres, Guillaule de Flavy, Perrot, un prete) Didier Lava
orchestra, coro e coro delle voci bianche dell’Opéra de Lyon

durata 1 ora e 20 minuti

nuova produzione

www.opera-lyon.com