La cura

Lenz presenta Kinder (Bambini), il primo step di un progetto triennale dedicato alle tematiche «della Resistenza e della tragedia europea durante le dittature nazi-fasciste», che proseguirà nel 2017 con Aktion T4 (Azione T4) e nel 2018 con Rosa winkle (Triangolo rosa), estendendo la propria riflessione sugli Olocausti dei bambini sensibili e degli omosessuali.

Del Kinder (Bambini) di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri sono due le polarità attorno a cui ruota la messa in scena: l’analisi grammatologica di una parola affatto scontata da scrivere/usare e la decostruzione drammaturgica del rapporto tra identità e differenza attraverso l’intenzione compositiva dell’allestimento.

La prima pone la scelta tra maiuscolo e minuscolo, tra Storia e storia. «Historia magistra vitae» (Cicerone), «Versione dei fatti di chi detiene il potere» (Hegel), «Scienza nuova del ciclo di corsi e ricorsi» (Vico) sono solo alcuni degli aforismi possibili, ma certamente il rapporto dell’essere umano con il termine e con ciò cui esso differisce non è mai stato banale e, in particolare tra XIX e XX secolo, esso ha subìto le più stimolanti e maieutiche interpretazioni.

Fu la seconda delle considerazioni inattuali di Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, testo cardinale di quel periodo, a disvelarne la costituzione interamente culturale, dunque di racconto strumentalizzato dagli interessi del presente, spesso e purtroppo, volti a rappresentare il passato quale enormità che – nell’impotenza – opprime l’oggi e fardello che – nell’impossibilità – schiaccia il domani.

Conseguenza di moralistiche invocazioni (prendete esempio da me) e di falsi appelli affinché non accada mai più (dalla strage di mafia alla guerra, dalla malasanità alla malapolitica) che si strutturano in un dispositivo di drammatica identificazione tra re-azione e in-azione, di patetico mantenimento dello status quo, è la dilagante diffusione di un pensiero a-criticamente cinico (tanto non cambia nulla) e colpevolmente figlio di una deresponsabilizzazione che inibisce, delegandola al continuamente futuro, la costruzione di un mondo autenticamente inclusivo e di un’accogliente e non impaurita ecologia dell’alterità e della sensibilità.

Accoglienza, alterità e sensibilità che, non a caso, rappresentano la cifra est-etica di Lenz fin dalle sue origini, da oggi, al suo trentennale di attività, ammirabile anche all’interno di un progetto permanente di «ricerca drammaturgica intorno ai temi della Resistenza e dell’Olocausto» grazie a una scelta di lodevole (come il voto in canto del piccolo Luciano di Samuele Bellingeri) lucidità, la sperimentazione artistica su argomenti da tempo consegnati al dibattito ideologico (più che storiografico) che sempre più soffrono pratiche didattiche che marginalizzano il Novecento nel nulla della conoscenza scolastica, oltre che la naturale progressiva scomparsa di chi (partigiani e sopravvissuti) di quelle vicende continua a portare i segni sulla carne ancora viva.

In un paese dove i finti revisionismi (di quelli documentati ci sarebbe un urgente bisogno) hanno determinato la diffusa assenza dall’esperienza pubblica di simulacri e testimonianze delle atrocità del fascismo e delle sue gravissime commistioni con il nazismo, in una Terra globalizzata che, nonostante l’affermazione positiva del cosmopolitismo, subisce poderose spinte all’omologazione e allo scontro tra differenze, Lenz continua a interrogare e a interrogarsi sull’arte performativa perché consapevole di trovarsi di fronte al rischio dell’oblio del senso della stessa, alla tentazione di una rinnovata caduta nell’ipocrisia dell’estetismo o nella serenità del disimpegno, dando un contributo alla crescita civile e morale della collettività dall’enorme portato concreto, non solo per i soggetti coinvolti, nonché teorico con un allestimento complessivamente stupefacente per audacia compositiva e formalismo drammaturgico.

Lo fa con temeraria coerenza, come da habitus, non accontentandosi di reiterare in garanzia i propri enormi mezzi espressivi, ma lasciando posare il proprio sguardo sulle essenze ideali di fenomeni mantenuti intatti e concreti (i bambini ebrei di Parma deportati ad Auschwitz), grazie anche alla consulenza storica di Marco Minardi dell’ISREC e alla scelta di incastonare – tra inserti di splendida e complessiva omogeneità – fonti primarie dallo straordinario impatto emotivo, le lettere di Giorgina Padova in Fano indirizzate al Questore della Provincia di Parma, le poesie scritte da bambini ebrei nei campi di concentramento e il disegno della casa della piccola Tereska estrapolato dal particolare di una foto dell’epoca.

Trasfigurando il punto di vista di chi avrebbe tutta la vita davanti e si appresta a soccombere senza mai scorgere l’abisso della morte, nella contrapposizione tra la geometria di un ordine scenico tangente l’assoluto, la pacata durezza delle sonorità e la spontanea tendenza all’anarchia dei bambini, i nove protagonisti dai 6 ai 12 anni affiancati dall’esperta Valentina Barbarini danno forma all’impianto di una rappresentazione dall’altissimo tasso polemico che, diversamente dall’andamento rizomatico dei precedenti lavori, pur scegliendo una struttura narrativa lineare per la presenza dei piccoli e piccolissimi interpreti, non mostra mai cedimenti alla banalità o all’esercizio di stile, meno che mai al paternalismo.

Dalla dilaniante preghiera Tenebrae dell’eretico Paul Celan, declamata dalla piccola Martina Gismondi in una scena emotivamente glaciale e sconvolgente per intensità intepretativa e ambientazione visiva, al Komm lieber Mai di Mozart cantato da piccole voci bianche di Ars Canto alla struggente ricerca di un equilibrio necessariamente imperfetto perché vitale hic et nunc e non accademico, a connotare per la ricerca artistica di Lenz uno spazio di clamorosa discontinuità e apertura sul tema dell’identità è proprio la seconda polarità, la scelta compositiva di un allestimento costruito su minime variazioni testuali e gestuali e su una cadenza ritmica amministrata con incredibile padronanza ed efficacia da performer non solo alla primissima esperienza teatrale, ma addirittura allevati nella (de)formazione classica.

Tra le pieghe del gioco teatrale tra differenze e ripetizioni che altera diverse sfumature nei movimenti e nei dialoghi immaginari tra bambini (sul loro arrivo nel campo di concentramento) in un ambiente essenzializzato dalle fredde tonalità del metallo, Lenz declina quello spazio attraverso la proposta di una rifondazione debole della soggettività. Una soggettività da concepire non più data una volta per tutte, ma continuamente da ricomporre e ristrutturare perché con-segnata (d)all’interazione con le altre soggettività, ossia alla domanda al tu di fronte all’io, così strappando a quel pensiero che, sulla scorta dell’eredità positivista delle cosiddette scienze umane, ha ridotto la coscienza a oggetto di indagine erudita, dunque di (micro)dominio.

Lenz in Kinder (Bambini) assolve allora la propria mission in due direzioni. La prima, sociale, è quella con cui riesce a eludere la cristallizzazione della memoria nel documento storico per ricompore «quel che resta dei campi di lavoro e di sterminio» (il nulla della morte) e così restituire ai «volti dei bambini ebrei di Parma» la parola di cui erano stati privati dal monumentale soliloquio dell’occidente postsocratico, una civiltà della tecnica e della produttività (per il consumo) dedita all’elaborazione di efficaci ed efficienti, ma omologanti ed escludenti, giudizi universali di umanità, ormai schiantatasi tanto sul pregiudizio etnocentrico dello straniero come barbaro e diverso, quanto su quello opposto del relativismo inteso come impossibilità del confronto, anticamera di un livellamento coatto che preclude ogni contaminazione (umana e culturale). La seconda direzione, se possibile ancora più rivoluzionaria e radicale per le conseguenze nella grammatica dell’arte, è quella dell’intenzione culturale dei ruoli attorali, di regia, drammaturgia, e via via tutti gli altri, che, affermando un dialogo di autentico rispetto e non di mera tolleranza o sopportazione generazionale, qualifica tra le varie componenti della rappresentazione la co-assunzione della propria parte di responsabilità artistica.

Quello di Pititto e Maestri, artisti al pari della piccola Tereska alle prese con l’avvolgente disegno della propria casa, è pertanto un impulso incessante, un lavoro continuamente propedeutico a ciò che l’arte non dovrà/potrà mai presentare in forma conclusa: il poetico tentativo di trasfigurazione del non finito dell’esistenza, di un orizzonte impossibile da possedere e in cui coltivare l’etica dell’ospitalità, per così offrire agli ultimi, ma a chiunque, anche e soprattutto quando sensibile, dunque non atteso, la speranza di trovare sempre accolta la propria dignità.

Chapeau.

Lo spettacolo continua:
Lenz Teatro

via Pasubio 3/e, Parma Italy
25 aprile, dal 27 al 29 aprile, ore 21

Kinder (Bambini)
testo e imagoturgia Francesco Pititto
installazione, elementi plastici, regia Maria Federica Maestri
musica Andrea Azzali
direzione musicale voci bianche Ars Canto M° Gabriella Corsaro
consulenza storica Marco Minardi
interpreti Valentina Barbarini con Pietro Anelli, Samuele Bellingeri, Matteo Castellazzi, Marcello Costa, Martina Gismondi, Agata Pelosi, Alessandro Poli, Cloe Teodori, Anna Giada Vaccaro
luci Alice Scartapacchio
assistente Marco Cavellini
produzione Lenz Fondazione in collaborazione con ISREC