Al teatro Flavio di Roma va in scena un interessante monologo scritto e diretto da Franco Venturini.


La prima stagione del teatro Flavio (aperto da ottobre), è stata caratterizzata da un cartellone audace, aperto alle sperimentazioni e alla ricerca di un linguaggio originale, ma attento a non intaccare la classicità degli autori rappresentati – basti ricordare Le tre sorelle di Cechov o La vedova scaltra di Carlo Goldoni; La vera storia di Ettore Majorana, che rifletteva su uno dei misteri più indecifrabili del Novecento; e, ancora, la prossima messinscena de La Divina Commedia, che promette un’indagine sulla solitudine, e le assurde e spesso incomprensibili meccaniche amorose e sessuali dell’uomo contemporaneo.

In questo quadro generale, L’albergo della donna sbattuta sul tavolo può apparire a prima vista come uno spettacolo facile, ovvio, persino scontato, incapace di emozionare e coinvolgere il pubblico. Mentre, in realtà, nasconde non pochi spunti critici e riflessivi, di non facile interpretazione, ricco com’è di interazioni e contributi, che tendono ad aprire piani linguistici dinamici ed imprevedibili, quasi da work in progress.

Un uomo attende come ogni settimana, nella stessa stanza d’albergo, l’incontro con la medesima prostituta. Sembra essere un giorno come tutti gli altri. Nulla può far presagire il dramma che si sta scatenando nella sua mente. Una scossa che trasformerà per sempre la sua vita e il modo stesso di percepirla e viverla. Durante l’attesa – un tempo che non passa mai, in quanto può essere un istante come tutta l’esistenza – l’uomo ricostruisce tutte le tappe della sua storia con la ragazza, lasciandosi andare a una sorta di confessione delirante e grottesca sull’ansia autodistruttiva e nichilistica di porre fine, o portare avanti, la sua relazione con lei. Un monologo interiore che pervade lo spazio circostante, in grado di creare atmosfere laddove non esistono né potrebbero mai esistere, dando voce agli istinti più bassi, assecondando fin dove possibile la sua insana (addirittura criminale) voglia di concedersi integralmente all’eros, trasfigurarsi senza pietà nella morte celata in ogni desiderio, anche in quello più autentico e genuino.

L’uomo non sopporta l’assoluta innocenza-colpevolezza della donna che, ignara o indifferente al suo oscuro amore (che, come insegna Shaeskpeare, nasce sempre dall’odio e si confonde spesso con la smania di possesso), sembra proiettarsi in un universo prettamente metafisico, avulso da ogni contatto concreto, da ogni benigna relazione, divenendo con ciò il simbolo stesso della disfatta allucinatoria dell’uomo. L’assoluta incapacità di possedere una donna senza comprarla, goderne il corpo senza concepirlo come un oggetto di sua esclusiva proprietà, utilizzabile a piacimento, pone l’uomo in una dimensione di profonda e ingestibile inferiorità, rendendolo incapace di accettare la “libertà” mercificata della prostituta di vendersi al miglior offerente, rimanendo vittima di un mercato dei corpi e del sesso, ormai davvero orizzontale, di cui lui stesso è principale protagonista.

L’uso indiscriminato del sesso come catalizzatore rigenerativo di un corpo malato benché sano, rappresenta la paratìa stagna dietro la quale rinchiudere – in un contesto ovattato e sicuro – la mostruosità perversa che ci cela dietro l’apparente normalità dell’uomo civile. Ed è la duplicità dei piani attraverso i quali scorre la narrazione, che arricchisce il monologo deleterio e ossessivo in cui cade l’uomo, nell’attesa spasmodica e febbrile della sua amante. Il suo delirio serve a “razionalizzare” la sua paura di perdere o di non saper soddisfare a pieno le sue voglie, e con queste, la complicità erotica e ludica che ha intessuto con la ragazza, oppure non è altro che l’ennesima stazione allucinante di un viaggio alla scoperta della totale decomposizione di ogni punto di riferimento?

Il suo grottesco dialogo autocosciente, in cui veramente si misura la sua profonda ed irrimediabile solitudine (marcata anche dalla scenografia scarna e squallida della camera da letto) e con essa, quella di chi vende il suo corpo e la sua vita per denaro, tocca l’apice desolante dell’impalpabilità, nel momento in cui decide di farla finita, di “possedere” fino alle estreme conseguenze il corpo e l’anima della sua amante: «Se non può essere solo mia, lo sarà per sempre. Così non sarà di nessun altro». Questa ansia sadica di uccidere ciò che si ama è forse il suo intento fin dall’inizio. L’attesa non rappresenta altro che la necessità di crearsi un alibi, costringendo la propria coscienza a un’atmosfera “definitiva”, ineluttabile, da dove è impossibile fuggire. È il desiderio di porre termine al dolore con la morte di chi ha sempre rifiutato il suo disinteressato (e in questo scambio mercantile, assolutamente ridicolo e falso) amore, che pone le premesse del trapasso dell’uomo da amante ad assassino. Se non si può amare, allora rimane solo la morte: possesso unico e definitivo. L’attesa dunque come abitudine mentale all’omicidio, alla trasformazione di un essere umano in un oggetto perché è solo attraverso la sua riduzione a nullità programmata, gestibile scientificamente, che gli orrori indicibili del Novecento sono stati resi possibili.

Ma la morte non solo può liberare dal dolore, dagli errori, dalla cronica incapacità di vivere affrontando la complessità irriducibile delle passioni, assecondandone le tendenze più estreme, senza avere paura delle conseguenze, rischiando anche il ridicolo, ma può rendere complici di un destino, di un’esperienza comune, dalla quale non è più possibile separarsi. La vita spesso divide; solo la morte unisce, e per sempre. Mentre nell’incontro tra due solitudini, tra due coscienze in decostruzione, si misura la capacità o l’incapacità dell’uomo contemporaneo di riflettere su stesso, di guardarsi finalmente allo specchio, in una vera e puntuale prassi di autocoscienza, che non lo porti lontano dai suoi problemi reali, ma gli permetta di affrontarli e risolverli nelle relazioni quotidiane.

La camera da letto, palcoscenico del crimine supremo, luogo deputato all’esaurimento di ogni progettualità, sembra parlare attraverso i suoi mobili, la sua essenza oggettuale, indicando forse una possibilità, un’utopia salvatrice, rivelando l’afasia di un linguaggio umano ormai spento, inabile a comunicare qualsiasi concetto, qualsiasi profondità. Alla corruzione della vita, si aggiunge quella ancora più inaccettabile e degradante del linguaggio, incapace ormai di esprimere quella potenza rivoluzionaria del verbo in grado di creare dal nulla un’emozione perduta e una stagione amata. Come diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa: «Chi parla male, pensa male e vive male». Mai profezia fu più azzeccata.

Lo spettacolo continua:
Teatro Flavio
via Giovanni Maria Crescimbeni 19 – Roma (zona Colosseo)
fino a domenica 28 marzo

L’albergo della donna sbattuta sul tavolo
di Franco Venturini
con Franco venturini