Al teatro Valle di Roma va in scena, per la regia di Glauco Mauri, L’inganno, tratto da Sleuth (Il segugio) di Anthony Schaffer.

Vincitrice del prestigioso Tony Award nel 1971 come migliore commedia dell’anno, la pièce è stata rappresentata anche a Broadway, dove è rimasta in cartellone per ben quattro anni, mentre a Londra le repliche si sono protratte addirittura per otto. Un plot avvincente, adattato due volte per il grande schermo e che in Italia è uscito con il titolo Gli insospettabili. La prima volta, nel 1972, Joseph L. Mankiewicz diresse Laurence Olivier e Michael Caine; mentre, nel 2007, Kenneth Branagh ha firmato un remake sceneggiato da Harold Pinter, con Michael Caine e Jude Law nel ruolo dei protagonisti.

Assieme a Roberto Sturno – con cui nel 1981 fondò l’omonima compagnia – Mauri accetta la sfida di un testo contemporaneo complesso, pieno di suspense e colpi di scena imprevedibili, in un giallo che sfiora inconsapevolmente il thriller, ricordando atmosfere hitchockiane, e forse Mauri è anche l’ultimo esponente di quella stagione teatrale che, fin dai primi anni 60, tentava di coniugare riqualificazione del vecchio e ricerca del nuovo. Memore della grande tradizione narrativa brechtiana e dei giovanili entusiasmi beckettiani (di cui fu, nel 1962, il primo interprete italiano con Atto senza parole), ha sempre sentito la necessità di formulare un linguaggio recitativo corale, che partisse dalle contraddizioni sociali contemporanee per ascoltare la follia o l’amore che segna l’uomo nel suo farsi storia. Ne L’inganno, la sua figura carismatica assume ancora più centralità visiva grazie alla straordinaria interpretazione di Roberto Sturno – suo alter ego e rivale-nemico Mayo Tindle – che offre al maestro la possibilità di esibirsi in un gioco dialettico unico nel suo genere, attraversando tutto il suo ormai cinquantennale repertorio, passando dal grottesco alla farsa, dalla commedia dell’arte al dramma, dall’ironia inglese stanca e malata al paradosso comico all’italiana.

Nel primo atto, Andrew Wike (Glauco Mauri), famoso scrittore di romanzi polizieschi, invita nella sua casa a sud di Londra, l’amante della moglie Mayo Tindle (Roberto Sturno), di origini italiane. L’equivoco inizia subito a serpeggiare poiché sembra che Wike sappia tutto della relazione della moglie con Tindle e che voglia anzi facilitarne lo sviluppo. Sapendo che Tindle, proprietario di una modesta agenzia di viaggi, non può assolutamente permettersi di mantenere una donna abituata al lusso e a una vita agiata, lo induce subdolamente a comprarsi il suo amore rubando i gioielli dalla sua cassaforte. Da principio Tindle rifiuta, sicuro dell’amore disinteressato della donna, ma pian piano si accorge che il tarlo gettatogli nella coscienza da Wike potrebbe avere qualche fondamento e, alla fine, si arrende e accetta di travestirsi da clown (dopo una esilarante prova costumi) per impossessarsi del bottino – aiutato fin nei minimi particolari dal padrone di casa. Tutto va per il verso giusto ma un colpo di scena frantuma in un istante tutte le linee giuda dello spettatore. Ecco che i ruoli si invertono: da vittima dell’adulterio Wike diventa il carnefice del rivale Tindle. Lo sfortunato cade nella sua trappola: chi crederebbe che non è un vero ladro? Le sue impronte sono dappertutto. La rapina è evidente.

Ed ecco che l’inganno prende corpo. Per rendere più credibile la fuga di un ladro, occorre sparare qualche colpo di pistola. Ma l’odio di Wike verso un uomo così diverso da lui – così lontano dalla sua vita cinica e indolente passata a scrivere polizieschi e a contemplare un mondo inesistente, abitato solo dalle sue creature letterarie – gli prende la mano, anche se all’inizio il suo obiettivo era solo quello di umiliare Tindle, ridicolizzarlo, indurlo a scivolare nel suo gioco grottesco.

Wike vuole che tutto rimanga al suo posto. Anche se non ama più la moglie – ma anzi la disprezza – nessuno può portargliela via: è un oggetto di sua proprietà. Accecato più dal rancore di un’esistenza ormai trascorsa e irrecuperabile che da una vera furia omicida, spara tre colpi sul clown Tindle. Quello definitivo a salve. Tindle sviene per la paura, convinto di essere morto.

Nel secondo atto, i ruoli ancora una volta si capovolgono, la vittima diventa carnefice e viceversa, entrando in una dimensione ancora più allucinatoria e imprevedibile. Wike, convinto di aver compiuto il suo dovere di marito tradito e abbandonato, si gusta una prelibata cenetta a lume di candela quando, a un tratto, entra in casa l’ispettore Doppler, incaricato dell’indagine sulla scomparsa di Mayo Tindle. Attraverso un’abile requisitoria, il detective ne dimostra la colpevolezza, facendolo cadere in un nuovo, perverso gioco delle parti. Wike, sconvolto dalla possibilità di avere veramente ucciso Tindle, sembra ormai in balìa dell’ispettore Doppler e non può più negare. Il suo obiettivo era quello di degradare Tindle, ridurlo a nullità, convincerlo a rinunciare alla moglie, dimostrandogli la sua inferiorità rispetto al genio machiavellico dello scrittore. Ma proprio nel momento culminante… e qui non aggiungiamo nulla per non togliere allo spettatore il gusto di godersi il finale.
Wike, dunque, rimane schiacciato sotto il peso del suo ridicolo gioco, dell’ansia corrosiva di combattere la noia indicibile della vita con lo sberleffo crudele, corroso dal vuoto affettivo che vive dentro e fuori di sé.

Viceversa Tindle non rappresenta più l’ignaro passante al quale cade in testa un vaso di fuori, ma il complice altrettanto deleterio di un’operazione mistificante, che tende a distorcere tutti i dati reali che permettono allo spettatore di cogliere a pieno l’essenza della narrazione.

Il paziente gioco delle parti induce a pensare di trovarsi di fronte a due identità indissolubili, due facce della stessa cinica mostruosità. Una scomposizione attiva (anche se alle volte passiva, indotta dalle circostanze) di due personalità istrioniche, attente solo a non sbagliare i tempi della loro entrata in scena, a non deludere il loro pubblico, ma pronte a tutto pur di vincere, con qualsiasi mezzo, la partita.

Il bene che è nel male e il male che è nel bene è la chiave di lettura de L’inganno, in cui, fino all’ultimo respiro, la vittima, il perdente può riscattare la sua nullità, ergendosi a maestro criminale, mente lucida e insaziabile di vendetta e di umiliazione crudele. E tutto accade tra due esseri umani incapaci di muoversi in uno spazio in cui brilla o può brillare la luce della verità, del giudizio finale e comprensivo del dramma indicibile (e sempre e comunque individuale) che è la vita.

Mentre Andrew Wike da Mister Hyde trasfigura in Dottor Jekyll, la rivincita del povero Tindle prende forma. La conclusione può apparire scontata: mai fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Ma c’è qualcosa di più profondo e difficile da capire: come avviene la metamorfosi imprevedibile e ingestibile dell’animo umano alle prese con i suoi istinti più profondi, con il suo inconscio distruttivo e delirante, nell’ansia insaziabile di essere finalmente quello che non si è o come non si potrà mai essere. E solo l’uso smodato della violenza, può permettere che questo miraggio diventi passione sfrenata. Per essere rispettati, in un mondo che erge il delitto a essenza vitale, occorre essere pronti a qualsiasi crimine. Non importa contro chi, né tanto meno le conseguenze. L’importante è essere dal lato giusto della pistola e premere il grilletto. Umiliare è spesso meglio che uccidere. Lascia tracce meno visibili ma più profonde, impossibili da cancellare.

Lo spettacolo continua:
Teatro Valle
Via del Teatro Valle, 21 – Roma
fino a domenica 28 marzo
orari: tutti i giorni ore 20.45 – a eccezione del 21, 24 e 28 marzo, ore 16.45 e 16 e 23 marzo, ore 19.00

L’inganno
di Anthony Shaffer
traduzione e adattamento Glauco Mauri
regia di Glauco Mauri
con Glauco Mauri, Roberto Sturno
scene Giuliano Spinelli
costumi Simona Morresi
musiche Germano Mazzocchetti
Compagnia Mauri Sturno