Quando Shakespeare potrebbe restare sullo scaffale

Sul palcoscenico del Rifredi di Firenze si conclude la tournée de La Bisbetica Domata – tra misoginia e ilarità

 

 

Perché?
Domanda che dovrebbe porsi ogni regista prima di scegliere un copione.
Perché, oggi, in Italia, con un saldo vittime del femminicidio da guerra di mafia, riproporre il testo shakespeariano (già abbondantemente misogino e maschilista a suo tempo, espressione di quel fascino per il dominio e la prepotenza che caratterizzò l’epoca Tudor), calcando l’acceleratore proprio sugli aspetti più violenti, trasformando un “addomesticare” (già abbastanza insultante) addirittura in un “domare” (differenza che ben spiegava Goffredo Raponi), e una figura in fondo molto umana e sensibile come Caterina in una specie di animale selvatico (si notino, ad esempio, i versi bestiali soprattutto nella parte iniziale).
E la risposta non può essere che Shakespeare è Shakespeare, perché se non tutte le ciambelle riescono col buco, oggi, anche ai maggiori autori, così capitava ai tempi del Bardo; e in ogni caso, non è detto che ciò che poteva essere divertente e consono, accettabile o addirittura a cui plaudere sul finire del ‘500 debba esserlo tuttora.
Ovviamente si sarebbe potuta mostrare l’insensatezza dell’intera farsa grazie a una messinscena grottesca, o alla scelta di un cast tutto al femminile (qui non si ha l’en travesti, bensì un cast al maschile come in epoca shakespeariana), dove il monologo finale di Caterina, trasposto al maschile, sarebbe apparso in tutta la sua assurdità, inattuabilità e imbecillità (soprattutto in un tempo in cui le donne non solamente lavorano al pari degli uomini, ma hanno dimostrato la loro tempra continuando a occuparsi della cura – di figli, casa, anziani – e, nel contempo, facendosi carico di produzione e riproduzione, con buona pace della supposta e supponente superiorità o forza maschile).
Per la Caterina di Tindaro Granato non posso scrivere le medesime parole che spendemmo per la Medea ronconiana: “Le battute e i cliché sul ruolo della donna, recitati da un Branciaroli/Priscilla la regina del deserto… assumono una dimensione straordinariamente contemporanea”. Al contrario, l’abbassamento a uno stato quasi selvatico non fa giustizia nemmeno al personaggio shakespeariano, così come la figura da carillon di Bianca non ci mostra l’altra faccia della medaglia – perché se Caterina poteva essere bizzosa per mantenersi integra e salvaguardare la propria sensibilità, Bianca era l’emblema dell’apparenza sotto le cui ceneri covavano grettezza ed egoismo.
Non entrerò nel merito del personaggio di Petruccio, di cui si mostrano unicamente l’avidità e un’arroganza machista (il gioco con la cinghia parla da sé) senza sottolinearne altri aspetti ben più importanti, quali l’amore che in fine prova per Caterina e il sincero disinteresse per le apparenze di fronte alla sostanza delle cose e delle persone.
E ancora: perché indulgere in quella scena brutale in cui a Caterina è finalmente concesso di mangiare come un cane in una ciotola, dopo averla affamata per giorni? L’unica immagine che ha suscitato in me, come donna, è stata quella di Monica Calò, uccisa con ventidue coltellate dal suo ex, dopo che si era ribellata a un uomo che l’aveva letteralmente affamata fino a portarla a pesare 38 chili. E non basta che le scene più violente vedano il corpo di un uomo (Tindaro Granata) opporsi a quello di un altro (il Petruccio di Angelo Di Genio), resta la consapevolezza che la sopraffazione è fatta passare persino con gioiosa nonchalance – grazie anche all’uso di motivetti accattivanti come Magic Moments di Perry Como.
Il finale – nel quale non si sottolinea a sufficienza che la Vedova e Bianca sceglieranno di non sottomettersi – potrebbe essere pienamente sottoscritto da un qualunque uomo “costretto” ad ammazzare la propria compagna (o ex) perché lo ha deriso, infastidito, maltrattato o disilluso. Questi poveri uomini che, dopo cinquecento anni, sono ancora qui a sperare di vederci tutte in ginocchio come ai tempi felici di Shakespeare quando una regina vergine poteva essere la figlia di una donna decapitata dal marito.
E qui apro una parentesi del tutto personale: la cosa che, come donna, prima ancora che come giornalista o critico, mi ha ferita è stato sentire le ragazzine in platea ridere. Ridere di fronte a una donna che mangia da una ciotola per cani, ridere di fronte a un uomo che le fa violenza in scena. Quarant’anni fa si era forse meno libere ma più consapevoli.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro di Rifredi
via Vittorio Emanuele II, 303 – Firenze
venerdì 5 aprile, ore 21.00

LuganoInScena in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Carcano Centro d’Arte Contemporanea di Milano presentano:
La Bisbetica Domata
di William Shakespeare
adattamento e traduzione Angela Demattè
regia Andrea Chiodi
con Angelo Di Genio, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Igor Horvat, Christian La Rosa, Walter Rizzuto, Rocco Schira e Massimiliano Zampetti
scene Matteo Patrucco
costumi Ilaria Ariemme
musiche originali Zeno Gabaglio
disegno luci Marco Grisa

www.teatrodirifredi.it