Grande successo di pubblico per La bohème alla Scala di Milano. Questo, a conferma che Giacomo Puccini è uno tra gli autori più amati in Italia, Franco Zeffirelli il suo regista ideale e Daniele Rustioni un giovane direttore coraggioso.

È la vigilia di Natale in una fredda soffitta che si affaccia sui tetti di Parigi e due giovani aspiranti artisti infreddoliti – Rodolfo, poeta, e Marcello, pittore – mostrano al pubblico la loro povera quotidianità. Povera eppure piena di brio, di vita: gli amici, le strade affollate del Quartiere Latino, il café e l’amore alimentano questa vicenda tanto nota, ma sempre sorprendente.
Dal gennaio del 1963 la regia di Franco Zeffirelli spadroneggia in tutte le rappresentazioni scaligere dell’opera. Solo i costumi – qui di Piero Tosi, ripresi da Alberto Spiazzi – cambiano nel corso degli anni. Come se fosse ormai appurato che la storia de La bohème può essere rappresentata solo in questi ambienti, con questi gesti e interpretazioni. Da un lato, il ragionamento – seppure logico – suscita quasi un moto di impazienza e irritazione: ancora una volta, in uno dei teatri più importanti del mondo, viene meno la possibilità di vedere qualcosa di nuovo. Dall’altro, con un misto di rabbia e sollievo, si è subitamente catturati dalla dimensione quasi fiabesca che il regista fiorentino ha saputo imprimere alla sua bohème
Scenografia, costumi e regia sono in perfetta simbiosi con la musica di Puccini. Seppure la soffitta – del I e IV quadro – risulti forse convenzionale, possiede comunque un’indubbia funzionalità: si accendono candele vere, si versa vino autentico e si mangia del pane – solo il pesce è finto. Proprio in questi passaggi si sente maggiormente la lezione di Visconti – lui che, con tutta probabilità, il pesce lo avrebbe voluto fresco di giornata a ogni replica. Del resto, la cura dei particolari è un ottimo mezzo per catturare l’attenzione dello spettatore; così come, nel corso dell’opera, un altro artificio sapiente per stregare la platea è l’esibizione di un cast stellare, dotato di voci belle e interessanti. Si comincia con Marcello, di Fabio Capitanucci (baritono), già a proprio agio in questo ruolo nelle edizioni 2000, 2003 e 2005. Voce e timbro sono quelli giusti e si nota una buona dose di ironia nel personaggio – purtroppo, a volte, le parole non sono pronunciate chiaramente, ma questo è dovuto anche al fatto che l’orchestra, spesso, sovrasta il cantante. Più volte, del resto, nel corso dello spettacolo, gli strumenti hanno la meglio sulle voci, tranne per quella, solida e ben distinta, di Vittorio Grigolo nei panni di Rodolfo. Sarà il piglio sicuro e un po’ spavaldo, sarà la facilità canora unita a un ottimo controllo e a sonorità piene, ma Grigolo conquista la platea nel giro di poche note. A conferma di ciò, lo scroscio di applausi che suggella la celeberrima Che gelida manina.
Applausi – appena con una velata contestazione – dopo Mi chiamano Mimì di Angela Gheorghiu, una tra le cantanti di maggior successo di questi anni. Voce bellissima, una recitazione a tratti troppo convenzionale – soprattutto nel primo quadro che, insieme al secondo, non le rendono appieno giustizia, mentre lascia letteralmente ipnotizzati gli astanti negli ultimi due. In particolare, è il terzo quadro, quello che permette al pubblico di apprezzare le sue doti musicali, tecniche e interpretative: il suo Donde lieta uscì è sincero, introspettivo e piace – così come piacciono enormemente tutti i duetti Mimì-Rodolfo.
Da favola è l’atmosfera che si crea proprio nella terza parte, anche grazie al paesaggio notturno e innevato – ricreato dalla scenografia – che suscita un senso di sospensione, dopo il concitato e affollato secondo quadro, dove grandiose scene di massa e i toni caldi del café fanno sentire al meglio il clima di festa e allegria che si respira in scena: fiaba natalizia all’ennesima potenza, con coriandoli, un trampoliere, le bancarelle dei giocattoli, dolci e frutta. Ed è proprio in questo paradiso visivo che si fa notare la bravissima Ellie Dehn, nel ruolo di Musetta: una voce davvero rara e una presenza scenica notevole sono giusto contrappeso alla potenza e alla garbata pienezza del suo canto. Un’ottima prova, la sua, con un personaggio azzeccato in ogni aspetto.
Nota di merito al basso Marco Spotti che in Vecchia zimarra, senti rende finalmente giustizia al suo Colline.
Una Bohème diretta con calore e convinzione da Daniele Rustioni che la ama e la conosce e ha saputo gestire con fermezza un’orchestra importante e voci prestigiose – mix che avrebbe fatto impallidire molti direttori già nel pieno della carriera. Probabilmente il tempo saprà conferirgli ancora più fascino interpretativo e una visione meno irruenta e passionale di queste pagine, a favore forse di una versione dove un universo poetico agirà da padrone. Forse.

Lo spettacolo continua:
Teatro alla Scala
via Filodrammatici, 2 – Milano
lunedì 8, mercoledì 10, venerdì 12, venerdì 19, lunedì 22, mercoledì 24 e venerdì 26 ottobre, ore 20.00

La Bohème
libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
musica di Giacomo Puccini
con Vittorio Grigolo, Massimo Cavalletti, Domenico Colaianni, Angela Gheorghiu, Fabio Capitanucci, Marco Spotti, Matteo Peirone, Ellie Dehn, Cristiano Cremonini, Ernesto Panariello, Roberto Lorenzi e Marco Voleri e il coro delle Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala

direttore Daniele Rustioni
maestro del coro Bruno Casoni
regia e scene Franco Zeffirelli, riprese da Marco Gandini
costumi Piero Tosi