Tadeusz Kantor e la casta

trastevere-teatro-romaIn occasione dei cento anni dalla nascita di Tadeusz Kantor, un gruppo di entusiasti giovani attori si misura con il maestro polacco: La casta morta di Adriano Marenco, ispirato a La classe morta di Kantor.

Si attende il ritorno di Ulisse. La sua casa è fatta oggetto di scempio da parte dei Proci, che non hanno certo le sembianze di Principi: sono in mutande, blandiscono il pubblico, hanno l’aria un po’ malandrina dei piccoli truffatori dal respiro corto. Penelope si aggira nella platea con occhi grandi e sbigottiti che sembrano guardare oltre di noi, forse possiede visioni di quello che accadrà. Athena dirige con studiata lentezza la rifrazione di luce sulla sua egida specchiata; ho paura di venirne colpito poiché so che la visione della gorgone potrebbe pietrificarmi, facendomi diventare della stessa materia di Phobos, la paura.

Uno dei Proci ammicca con studiata complicità: «Crede di venire dall’Olimpo – mi dice riferendosi alla Dea – ma viene dalla montagna del sapone». Una Cassandra allucinata si aggira come uno spettro nel foyer: è biancovestita, ha una grande barba, porta in grembo una tastiera premendo i tasti della quale – come in un jukeboxe – si possono avere vaticini. La sacerdotessa ha gioco facile. Tutte le parole sono state dette, e non possono quindi che ripetersi: «Non vendo sogni ma solide realtà – El pueblo unido jamás será vencido – Stay hungry, stay foolish – Vincere, e vinceremo!».

Il linguaggio perde la dolcezza del significante per cristallizzarsi in parole d’ordine. «Non credetegli. Uccidetelo!» gli fa eco una donna, probabilmente un’ancella passata a servire i principi straccioni. Serata fiammeggiante questa: il teatro Trastevere di Roma è sold out completo per La casta morta di Adriano Marenco, ispirato a La classe morta di Tadeusz Kantor, di cui ricorre il centenario della nascita.

Siamo all’interno della rassegna teatrale EXIT – Emergenze Per Identità Teatrali, giunta ormai all’ottava edizione, ideata e realizzata dalle compagnie aderenti alla Fed. It. Art. Federazione Italiana Artisti. Sei compagnie in due settimane si alterneranno per un teatro visto come luogo di incontro per progetti innovativi. La nostra rivista Teatro.persinsala.it è mediapartner dell’evento, che stasera si mostra davvero tale: Tadeusz Kantor è protagonista riconosciuto del novecento, promotore di avanguardie in compagnia di nomi quali Grotowski, Artaud, Stanislavskij, Carmelo Bene. Al di là delle differenze, questi maestri hanno incarnato letteralmente un teatro inteso non tanto come rappresentazione di testi (il famigerato teatro di regia), ma come lavoro artistico su se stessi, trascendendo tuttavia la tentazione egotica, piuttosto mirando a quanto di universale si cela nella singolarità di ogni uomo.

Kantor acquistò fama mondiale fra il 1975 e il 1980 con l’opera teatrale La Classe Morta, in cui non si sviluppa una vera trama: coloro che in Kantor erano vecchi-bambini, nella parodia di stasera sono ministri e deputati; eleggono Neoplasio come Presidente-fantoccio. Il nome del tiranno fa pensare a una sorta di formazione tumorale, a cui tutti danno sostegno: a turno lo animano, lo fanno parlare, cercando di legittimare il potere per se stessi. Il potere è una malattia: «Siamo portatori sani di potere» dicono i deputati. Il caos delle voci si susseguono: «Il potere dovrebbe essere un diritto». Qualcuno ribatte: «Dividiamolo in due». Ora i deputati si alzano a turno dagli scranni come bambini scapestrati, e dicono con tono canzonatorio: «Cosma e Damiano – Gianni e Pinotto – Alice ed Ellen Kessler – Dada e Umpa». Ma concludono: non è un gran che il potere se ce l’hanno tutti. «La casta è un branco (scrive Simone Fraschetti nelle note di regia). Avanzano a quattro zampe nella storia, troveranno la postura eretta ed il potere». La casta morta come apologia della corruzione del potere? Certamente sì, ma è anche un laboratorio di sperimentazione del potere della parola, e di come questa si autoreferenzi. «L’onorevole chiede la parola – fa il commesso) – e ne ha facoltà». Poi si chiede esitante: «Ho facoltà?». Chiede ancora ma nessuno si prende la facoltà. Infine ricomincia la giostra delle parole d’ordine: «È giunta l’ora di un giro di vite – Ci serve un rondò – Spalanca la finestra». Kantor sviluppa la sua poetica sulle macerie delle due guerre, e sul disastro della parola che di fatto non è servita a evitare il massacro. «Vi traghetto da una zona morta all’altra» dice un deputato: la Storia non è un progresso costante, ma un succedersi di cadute e ascensioni. L’umanità ha creduto che il linguaggio potesse soprattutto comunicare; si è trovata piuttosto a comporre un mucchio di tragici malintesi. Non solo Neoplasio è un manichino, ma tutti coloro che parlano lo sono, in quanto credendo di parlare, sono in realtà parlati: «Il moloch mangia il moloch» dice una voce dal palco. Kantor allora si interroga sulla macchina del linguaggio, la apre, la smonta, la tritura, trovando la libertà non nel parlare di libertà come fanno i politici, ma giocando con il linguaggio come fanno i bambini, che ripetono una parola – che intuiscono appena – per farla vibrare su se stessa, e avvicinarne il senso dal versante del suono. Sulla scia di Kantor, gli autori decostruiscono il linguaggio come i bambini (dada e umpa) svelandone l’arbitrarietà; lo possono fare perché lo portano dentro la scatola buia del teatro, per poterci giocare a nascondino come un ladro si nasconde al derubato, o come un potere paternalistico nasconde la sua faccia di gesso al sottoposto. Finalmente essere fuor di metafora, fuori dal significato, quello imposto dalla parola d’ordine (vincere e vinceremo!) che Cassandra non può che ripetere per mostrarne il lato grottesco, fino a far scivolare l’imperativo su una linea di non sense. La soluzione di fuga teatrale è non essere mai in casa, pisciare sempre fuori dal vaso («Alla minzione!» grida un deputato), spogliarsi di tutto (gli attori si spogliano e si rivestono di continuo sulla scena), lasciare l’ingombrante Neoplasio inerme a terra perché sorreggerlo, e insieme dargli la parola, è fatica da manovali. Una voce giunge dalla scena: «Meglio la nostalgia della realtà». Quando il linguaggio non basta più a seppellire i morti, non c’è di meglio che guardare all’indietro, alla cacciata da quell’Eden da cui è per l’uomo cominciata la disgrazia. Catturo un ultimo frammento di scena: «L’artista sceglie la paura, e nella consapevolezza nasce la paura». La consapevolezza che esce da questo testo è che il linguaggio va usato con sospetto, che è buona regola non prendere troppo sul serio sé stessi e il potere: pena lo sprofondarsi nell’abisso su cui l’uomo gioca di equilibrismo. Nel finale Athena, Cassandra, Penelope, e Circe affollano la scena come fantasmi. Ulisse non c’è ancora, e tutti sono in attesa. «L’eroe moderno – scriveva Flaiano – non è più la vittima di una congiura divina, ma soltanto il frutto delle proprie inibizioni». Forse Ulisse l’ha capito, e si guarda bene dal farsi trovare.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Trastevere
Via Jacopo dè Settesoli 3, Roma
19 novembre, ore 21

Rassegna teatrale EXIT – Emergenze Per Identità Teatrali presenta
La casta morta
soggetto Luigi Marinelli e Michele Sganga
testo Adriano Marenco
con Raffaele Balzano, Marco Bilanzone, Valentina Conti, Francesca Romana Nascè, Mersia Valente, Marco Zordan
installazioni Pamela Adinolfi, Alessandra Caputo, Daniele Casolino, Lisa Rosamilia, Antonio Sinisi
regia Simone Fraschetti
musiche Michele Sganga
soprano Nora Capozio
violino Lia Tiso
pianoforte Michele Sganga
chitarra, riprese audio e sonorizzazioni Matteo de Rossi
postproduzione Studio Sonicview – Roma
scenografie Domenico Latronico
foto di scena Ikonica Foto
produzione Patas Arriba Teatro