Quando l’amore è una molla crudele

Al teatro Out Off, in scena fino al 1° luglio, La danza della morte, testo grottescamente avvincente di Strindberg, riletto – sotto una luce contemporanea – dalla sensibilità registica di Alberto Oliva.

L’immagine della molla evocata nel titolo non è casuale: Strindberg oltre a essere un grande uomo di teatro, si dilettò in studi di chimica, medicina, alchimia e teosofia; doveva quindi avere anche delle competenze in fisica. Il principio fisico della molla è noto a tutti: quanto più la si tira da entrambi gli astremi, tanto più sarà intensa, al rilascio, la forza che li riavvicinerà, in un lungo perpetuarsi di contrizione e distensione. Questa è l’immagine che evocano quasi tutte le coppie rappresentate da questo genio teatrale che rivoluzionò le istanze della drammaturgia ottocentesca per portare, sulla scena mondiale, spettacoli dissacranti e forti nella loro carica psicologica e introspettiva.

In maniera particolare Strindberg vi riuscì in questo testo, nel quale la lotta umana e sentimentale dei due protagonisti, Alice ed Edgar, è iperintensificata dall’ambiente nel quale vivono: una torre collocata nell’angolo più remoto di un’isola sperduta e priva di qualsiasi dimensione umana. Ottima la scelta del regista di rappresentare la torre/fortezza dei due coniugi attraverso una vera gabbia da circo che occupa quasi tutto lo spazio scenico: in questo senso si rende ancora più forte e chiara la dimensione sado-masochistica del rapporto che si alimenta e si nutre di continui colpi bassi, di continue sferzate crudeli. Tanto più i due coniugi riescono a essere meschini verso l’altro, tanto più provano un malsano piacere e tanto più si riavvicinano scoprendo che l’indossolubilità del loro rapporto sta proprio nell’esigenza di torturare se stessi e l’altro.

Strindberg, del resto, fa parte di quella culla culturale che è la Svezia, Paese che diede i natali anche a Kierkegaard e a Ibsen: è inevitabile, quindi, il suo confronto con quella sensibilità nordica che prese il nome di esistenzialismo e che lo induceva a non trovare un orizzonte di senso nell’esistenza, se non nella possibilità di sfogare al massimo le proprie frustrazioni e le proprie tensioni interiori nella relazione con l’altro: in questo senso, le coppie rappresentate nei suoi drammi sono molto autobiografiche (tre matrimoni abbastanza ravvicinati e tutti falliti) anche nel nel loro essere personaggi irrisolti, insoddisfatti e fragili – nonostante una patina di sicurezza inattaccabile.

Strindberg va altresì notato che riusciva benissimo in qualsiasi cosa si cimentasse, tanto da dire di sé che era consapevole di non essere una delle migliori teste della Svezia ma che ne aveva il “fuoco”. Un fuoco ardente che lo portò a sentirsi inattuale e inadeguato – rispetto a tutto – poiché consapevole che gli spiriti superiori sono necessariamente incompresi dalla massa, che la vita è una lotta senza sconti tesa a schiacciare tutto ciò che esce dal comune (Strindberg chiamava questo combattimento la “lotta dei cervelli”). Nel personaggio di Edgar, in particolare, interpretato da un eccellente Alexander Petricich – che, non a caso, aveva già sperimentato il repertorio Strindberghiano con la regia e l’interpretazione de Il legame nella precedente stagione dell’Out Off – c’è molto di questo atteggiamento e dell’autore. Petricich esalta al meglio le qualità lucidamente psicotiche e aggressive del capitano d’artiglieria che ha fallito la scalata sociale e lavorativa proprio a causa della sua arroganza e del suo disprezzo – vomitato indiscriminatamente addosso a tutti. E proprio per questo motivo – come dice la moglie Alice – l’uomo sente l’esigenza di impossessarsi e di controllare le vite degli altri in maniera vampiresca, succhiando le energie e le protensioni verso la vita, verso il bello, che gli altri manifestano e che lui ha dimenticato da tempo.

A fargli da altare e insieme baratro, la moglie, anche lei irrisolta nella convinzione di aver perso una grande carriera da attrice per seguire il destino di brava moglie borghese: Marta Lucini interpreta benissimo sia le sfaccettature delicate e fragili di una donna succube del marito, sia quelle aggressive, animalesche, razionalmente crudeli che si spingono verso la gioia più grottesca – si vedano i momenti in cui gioisce al solo pensiero della morte del marito.

All’interno di tale contesto morboso, a nulla serve l’agente esterno che tenti di elevarli dalla loro mostruosa esistenza: la figura moderatrice di Kurt – il cugino di Alice che giunge dopo anni a far loro visita. Dopo un breve soggiorno con la coppia, sentirà infatti che qualcosa di spaventoso e mostruoso è stato risvegliato nel suo animo da questi personaggi. Ottima l’interpretazione di Andrea Fazzari, che rappresenta i vari passaggi del viaggio verso gl’inferi che, l’incosapevole Kurt, non immaginava certo di compiere con una tranquilla visita ai parenti.

Dramma di coppia, quindi, dove i coniugi, che sono andati avanti nel proprio abominio per 25 anni – ed entro pochi mesi dovrebbero festeggiare le loro nozze d’argento – rappresentano la propria esistenza anche visivamente con le numerosissime foto sparpagliate per terra che continuamente calpestano e bistrattano, a sottolineare l’interessante scelta registica. Oliva, infatti, non vuole solo sottolineare come i due coniugi abbiano calpestato e buttato via la loro vita personale e coniugale senza rispetto per nessuno, ma ha soprattutto legato il testo all’attualità (anche grazie a passaggi aggiunti rispetto al testo originale), rappresentando attraverso la precarietà di questa coppia la fragilità coniugale (o comunque sentimentale) che sperimenta oggi un’intera generazione.

Il tono da farsa grottesca, che ogni tanto emerge in circostanze di riso amaro, di ironia cinica e macabra, è ulteriormente sottolineato da scelte musicali che – attraverso brani di Schumann, Liszt e Brahams – dietro una parvenza di leggerezza e semplicità, nascondono i risvolti più tragici dell’esistenza. In questo senso, molto forte il momento in cui Edgar suona uno spartito di Liszt al piano scordato: Oliva è ancora una volta da elogiare nella sua capacità di mescolare intuizioni moderne con elementi espressionistici che rimandano alle sensazioni evocate dalle migliori tele dell’epoca.

Spettacolo caldamente consigliato a chi vuole dedicare un’ora e mezza del proprio tempo a scoprire un autore fondamentale nella storia del teatro – e i colpi di scena che gioca abilmente nei momenti più inaspettati della pièce, permettendo riflessioni e introspezioni ancora oggi attuali.

Lo spettacolo continua
Teatro Out off
via MacMahon, 16 – Milano
fino a domenica 1° luglio
orari: da martedì a sabato, 20.45 – domenica, ore 16.00

La Danza della morte
di August Strindberg
regia, scene, costumi Alberto Oliva
con John Alexander Petricich, Marta Lucini, Andrea Fazzari e Chiara Zerlini
assistenti alla regia Arianna Carone, Federica Casati
consulenza storico letteraria professor Andrea Bisicchia
produzione Teatro Popolare Italiano e Teatro Out Off