Una selva oscura in 3D

Al Teatro Brancaccio l’opera musical La Divina Commedia torna a sedurre il pubblico a distanza di dieci anni, tra soluzioni geniali e laiche rivendicazioni umanistiche

Grandissimo coraggio portare in scena Dante. Lo si è già trasformato in videogioco, anime, fumetto… ma trasfigurare il suo poema didascalico-allegorico in musical è forse la sfida più impervia. Si tratta dopo tutto di rendere canto ciò che canto già è, e la terzina dantesca, modulata dalla forza ritmica di uno scrittore espressivo e icastico come l’Alighieri, resta pressoché insuperata nella storia della letteratura mondiale, affiancandosi idealmente agli esametri di un aedo mitico come Omero. Il poema illustre del nostro maggior poeta non si può leggere con gli occhi soli, è risaputo. Per sua natura, per sua essenza, esso necessita almeno di una performance orale, della qual cosa per anni ha cercato di convincerci, bontà sua, un non proprio disinteressato Benigni.
Assecondando una consuetudine diffusa, già l’amico Casella musicava del resto i versi del fiorentino, e non a caso la metrica delle origini definisce le proprie forme sonetto, ballata, canzone appunto. Si tratta dell’aspetto più critico e delicato per un musical ispirato alla Divina Commedia, come quello che da questa settimana viene riproposto in nuova veste a Roma, apertura e prima di un tour che si sposterà poi a Napoli, Milano, Bari…
Nello spettacolo attualmente in programma al teatro Brancaccio, gli autori, tra cui compare lo stesso regista-Virgilio, Andrea Ortis, hanno realizzato un impianto testuale polifonico integrandovi e (spesso) riadattandovi i versi originali del poema trecentesco, con esiti, come intuibile, non sempre convincenti. Ma cosa può l’umano dinnanzi al divino…?
Magari aggiornarsi, e infatti ciò che rende oggi possibile la trasposizione sulle scene teatrali di un’opera a tal punto visionaria è l’utilizzo di effetti 3D, giochi di luce sofisticati e cangianti, miraggi visivi prodotti da sorprendenti ibridazioni multimediali, scenografie coinvolgenti (e a più piani) e danze acrobatiche.
Anche su tale versante estetico l’equilibrio è però friabile. Se più che medioevale o umanistica è ormai postmoderna l’ambiguità che qui si associa all’amore, così innocente o salvifico, ma anche così colpevole d’ogni disastro esistenziale, è pur vero che nel corso del nostro mirabile viaggio nell’oltre dalla poesia consapevole, e di profondo disincanto umano, si deraglia a tratti verso sottolineature o artifici troppo esibiti per commuovere, forse per l’ansia di colpire al cuore lo spettatore, come se gli altissimi versi di Dante, l’utilizzo della musica, l’interpretazione abbastanza convinta degli attori e il tripudio degli ologrammi amplificati non bastassero. E alzare il volume non sempre rende migliore l’ascolto. Ottima dunque l’interpretazione duplice di un personaggio sofferente e sofferto come Francesca da Rimini, accompagnata, nel suo offrirsi allo sguardo del viaggiatore stranito, da un silhouette d’oro che si sgretola progressivamente sullo sfondo, a suggerire l’inganno splendido ma effimero della passione, motivo di colpa anche nel Purgatorio, per Guinizzelli e Arnaut Daniel, grandi poeti della stagione cortese e stilnovista, ma lussuriosi in latenza. Emotivamente ancora assai impattante la soluzione scenica escogitata per il naufragio di Ulisse – il mare che gli si chiude addosso come un azzurro sudario è una delle soluzioni più brillanti dello spettacolo – o per la kafkiana claustrofobia di Ugolino, schiacciato sull’ultima nota del suo canto da un dolore che ha la forma di impazzite scalinate alla Escher, vacue e vertiginose. Meno affascinante Beatrice, ridondante e umanissima, perciò spogliata di quel frigido mistero che rende indimenticabile l’originale. O Pier delle Vigne, in bilico come lo Stregatto di Alice su un nudo tronco oversize, vegetale propaggine poco in sintonia con la nota fragilità psicologica del segretario di Federico II, mirabilmente esaltata invece da Doré nella sua celebre illustrazione del XIII canto dell’Inferno. Persino più stonati l’allure da cabaret di un Caronte sghignazzante e dal tormentone facile, per quanto metafisico, o la tricipite terracotta in stile pompeiano chiamata a evocare il povero Lucifero, mentre le Furie sulle mura di Dite hanno look vagamente kitsch, novelle amazzoni alla Frank Miller, tra barricate più da Bronx in rivolta che da Tartaro in subbuglio. E ancora contorsioni di vichinghi selvaggi che dovrebbero essere diavoli, e tanto di apparizione finale di Medusa, sineddochica testa gigante e sguardo laser alla Goldrake, e Angelo liberatore, mise tecno-luccicante presunto omaggio a Cristal il Cigno dei Cavalieri dello Zodiaco.
Ingenuità cui in fondo si paga un prevedibile scotto quando l’ambizione è affrontare un simile, complesso capolavoro. Ma se la parte più folcloristica e fuori misura è l’Inferno, e anche quella iconograficamente più efficace. Il tono si ridimensiona nelle tinte pastello di un Purgatorio frettoloso e crepuscolare a sufficienza (che ci offre tuttavia i momenti artistici più compiuti, dall’incontro con un’intensa Pia de’ Tolomei, il cui canto è di una straziante nostalgia dal sapore d’oltralpe, a quello con le anime che assediano Dante nel nome del ricordo) e di un Paradiso sospeso tra il geometrico e il botticelliano, calligrafico il giusto, con qualche spruzzata di Kubrick e Spazio 1999 nelle sequenze cosmiche.
Marco Frisina si riconferma autore notevole, anche se non tutti i brani e le interpretazioni risultano caratterizzarsi con risultati omogenei.
Al purista sul genere Pasquazi si suggerisce in definitiva d’astenersi: la trasformazione della Commedia in musical potrebbe tramortirlo alla stregua d’una trasgressiva esperienza borderline. Consigliato agli amanti della trasversalità letteraria modello Auerbach, per i quali, alla faccia di qualunque realismo, è in fondo la tecnica della mimesis quella su cui bisogna confrontarsi: li scorgo già inclini con ben altro spirito ad apprezzare lo sforzo compiuto.

Lo spettacolo è in scena
Teatro Brancaccio

Via Merulana, 244, Roma
fino al 24 gennaio
ore 21.00 – domenica ore 16.00 e 20.00

La Divina Commedia
regia Andrea Ortis
testi G. Pagano, A. Ortis
musiche composte da Marco Frisina
voce narrante Giancarlo Giannini
con Antonello Angiolillo (Dante), Andrea Ortis (Virgilio), Myriam Somma e Noemi Bordi (Beatrice), Francesco Iaia (Caronte e Ugolino), Manuela Zanier e Rosy Bonfiglio (Francesca e Matelda), Daniele Venturini (Pier delle Vigne e Arnaut Daniel), Angelo Minoli (Ulisse e Catone), Federica Basile e Mariacarmen Iafigliola (Pia de’ Tolomei e la Donna), corpo di ballo e acrobati
scenografie Lara Carissimi
coreografie Massimiliano Volpini
costumi Lorena Di Pasquo
luci Valerio Tiberi
proiezioni e multimedia Roberto Fazio
direttore tecnico Gabriele Moreschi
produzione MIC