Ritorno a Goldoni

Teatro-Quirino-roma-80x80La locandiera torna a raccontarci con tinte comiche l’impossibile connubio tra amore e libertà.

Testo esemplare per comprendere la (reale o presunta) riforma goldoniana e la nascita di una commedia “calata” nel proprio tessuto sociale e con espliciti intenti moralistici, a La locandiera – la storia di un personaggio “moderno” che aspira all’emancipazione – non interessa strappare le grasse risate del pubblico, magari con grossolane volgarità, quanto stimolare il pensiero degli spettatori attraverso il divertimento. Un intento di riforma della “commedia dell’arte”, per esempio, individuabile nella rinnovata credibilità psicologica dei personaggi, nella costruzione di un concreto contesto di riferimento attraverso le scene, i costumi e una precisa scelta linguistica a favore dei dialetti, e – soprattutto – nel monologo finale dichiaratamemte educativo («si ricordino della Locandiera», ammonisce la protagonista a coloro i quali «mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate»).

Rispetto a questo quadro, l’adattamento di Giuseppe Marini mostra di meritarsi “l’onore delle armi”, perché, pur proponendo una versione scolastica, semplificata e priva di ambizioni in termini di originalità drammaturgica – nonostante quanto affermato nelle note di regia che riporteremo in questa recensione – , lo spirito umoristico di Goldoni, almeno in parte, è stato salvaguardato.

Pensata per “arrivare” e divertire il pubblico più vasto ed eterogeneo possibile, lontana da ogni intellettualismo e summa della commediografia goldoniana, fin troppo spesso abbiamo assistito a locandiere – malamente – piegate a esigenze di modernizzazione. Rispetto a questo rischio, la scelta di una impostazione recitativa e registica “leggera”, dunque, è risultata complessivamente vincente. Ma non completamente.

Al Teatro Quirino, infatti, l’idea goldoniana, negli esiti cui giunge questa locandiera, priva di adeguata introspezione psicologica e indagine sociale, destina ogni donna che ambisce alla libertà a una necessaria e intrinseca pericolosità “sociale”. Fatta da un esponente del gentil sesso, la pretesa di poter decidere autonomante la propria sorte e di mettere in atto un’etica eudemonistica (nel senso di finalizzata al proprio insindacabile piacere) è nociva e come tale deve essere ammonita. E La Locandiera altro non è se non l’avvertimento fatto a tutte le donne di non voler mai sfuggire a un dovere che le costringe a svolgere una precisa funzione sociale: l’essere compagne e madri, magari con figli a cui badare, mentre i maschi giocano a fare i pater familias, contemporaneamente padri e padroni.

Nella misura in cui Mirandolina vorrà affermare la propria autodeterminazione (affermazione assolutamente lecita, per quanto possa apparire libertina, a uno sguardo autenticamente secolarizzato) metterà anche in discussione tutta la struttura piramidale della borghesia, che in quegli anni iniziava a sostituire la struttura patriarcale della nobiltà, e con essa l’intera società, e che ai tempi in cui scriveva Goldoni stava ormai prendendo forma.

Una tradizione (rappresentata dalla promessa di sposare il cameriere Fabrizio fatta da Mirandolina al proprio padre in punto di morte), che arriva fino ai giorni nostri e che sostiene ideologicamente la concezione secondo la quale, per salvaguardare il decoro pubblico e privato, nonché l’ipocrisia che lo circonda, occorra un sacrificio individuale. Sacrificio, a cui ovviamente sarebbero chiamate proprio le donne libere, esposte per “cause di forza maggiore” alla completa mercé di uomini disposti pure alla violenza per averle (riuscito il momento in cui il Cavaliere, interpretato dallo stesso Giuseppe Marini, perde la testa e minaccia la Locandiera, sbattendo i pugni alla porta).

Se un approccio didascalico determinato dall’alternanza di dialoghi e monologhi e da una recitazione ridondante ed enfatica (che, purtroppo, mostra oggi tutti i segni del tempo) caratterizzano l’impostazione attorale, la regia sembra scegliere una costruzione drammaturgica basata semplicisticamente sui contrasti. Rispetto a essa, fortunatamente, la briosa interpretazione d Fabio Fusco offre momenti di sana e ilare esuberanza, con una Ortensia-gay concepita a partire da un interessante refuso filologico (“non sono una dama” diventa «non sono una donna») e dalla sintesi dei due personaggi femminili comprimari (Ortensia, appunto, e Dejanira).

Per cui, per esempio, all’opposizione tra i colori compassati e grigi del Marchese di Forlipopoli e quelli luminosi e sgargianti del Conte d’Albafiorita corrisponde un relativo e differente approccio alla vita: austero quello del primo, il nobile decaduto che dietro la rivendicazione di «rispetto e onorabilità come unica cosa che conti», nasconde in realtà la propria miseria economica e umana; brillante e vivace quello del secondo, personaggio in bilico tra il “positivo” e il mediocre, e a metà strada tra nuovo e antico, espressione di una borghesia arricchita che aspira a far parte della nobiltà. Un tema, quello delle conseguenze della “mobilità” tra classi sociali, che mezzo secolo dopo Giovanni Verga dipanerà negli aspetti più drammatici con l’avvio dei romanzi “veristi”.

Una scenografia, sempre uguale a se stessa, eccetto che per i cambi di scena determinati dalla rotazione delle stesse costruzioni che la compongono, monotona al punto da dare l’impressione di una inopportuna unità di luogo (quando invece la commedia si svolge nei vari locali della locanda) e un accompagnamento musicale piegato a una linearità di tipo televisivo (cercando di sostenere e sottolineare i momenti clou dell’incedere narrativo, come nel caso in cui Mirandolina e il Cavaliere si prendono per mano) finiscono paradossalmente e opportunamente per nascondere la disomogeneità e le lacune espressive dell’interpretazione di una Nancy Brilli dai ritmi eccessivamente compassati.

Ma l’opposizione più palese è, allo stesso tempo, quella più apparente: quella tra i diversi tipi di amore, tra l’infatuazione innocua e superficiale del Conte e del Marchese, quella adolescenziale da cime tempestose del misogino Cavaliere e quella, infine, vittoriosa del “predestinato” Fabrizio. Una opposizione all’interno della quale esiste un sottile fil rouge. Ovvero dimostrare che «l’amore è debolezza, miseria umana», qualcosa da cui nessuno può sentirsi al “riparo” e al cui altare ognuno dovrebbe, come detto, sacrificare la propria libertà.

L’intenzione di mostrare “l’egotismo [e la] battaglia di narcisismi che da sempre sembra trovare nella sfera amorosa il suo terreno di applicazione privilegiato […] l’Eros [che] riemerge nell’accezione più odiosa, quantunque comica e divertente […] il desiderio (maschile) […] sacrificato sull’altare di un narcisismo (femminile)“, risulta allora a tratti anacronistica se riferita alle dinamiche che ormai segnano i contrasti di genere e potere tra donne e uomini.
Certamente il finale “aperto” (almeno per chi non conosce il testo), chiedendo agli spettatori di pensare a una “propria” conclusione, attenua la sensazione che Mirandolina identifichi desiderio di libertà ed ego(t)ismo e che lei, spregiudicata “padrona di casa”, possa essere colpevolizzata per la mercificazione cui nei nostri tempi è sottoposto il “corpo delle donne” (pur ritenendo che le responsabilità non siano – quasi – mai a senso unico, è difficile non pensare che averle rese oggetto – non soggetto – di libidine sia un onere prettamente maschile, soprattutto, in una società come quella italiana dove – nell’economia, nella politica e nel sociale – sono gli uomini a farla da padrone).

Dunque, della levità di Goldoni, Marini conserva i pregi senza evitarne i difetti e finisce per cadere in una sostanziale inconsistenza, perdendo così di vista il dichiarato obiettivo critico di mostrarsi “spietata, modernissima e proto-strindberghiana lotta tra i sessi” (ben altra potenza, ad esempio, avrà il realismo di Nathaniel Hawthorne con il romanzo La lettera scarlatta pubblicato circa mezzo secolo dopo).

Una vittoria drammaturgica, quella di Marini, che – forse o a tratti – “sa” di Pirro.

Lo spettacolo va in scena
Teatro Quirino
Via delle Vergini, 7, 00187 Roma
fino a 1 Dicembre 2013

SOCIETÁ PER ATTORI
presenta
LA LOCANDIERA
di Carlo Goldoni
adattamento Giuseppe Marini
con (in ordine alfabetico) Nancy Brilli, Fabio Bussotti, Giuseppe Marini, Maximilian Nisi
e con Fabio Fusco, Andrea Paolotti
scene Alessandro Chiti
costumi Nicoletta Ercole