I dialoghi del cuscino

In scena al teatro Era di Pontedera una doppia versione de L’uomo dal fiore in bocca. Dario Marconcini e Gabriele Lavia propongono al pubblico due visioni completamente diverse del testo pirandelliano.

Si rimane inizialmente sorpresi dalla scelta del Teatro Era di presentare nella stessa serata il medesimo testo. Al contrario, il pubblico può uscire soddisfatto per aver assistito a due interpretazioni tanto diverse, che offrono interessanti spunti di riflessione.
L’uomo dal fiore in bocca fu scritto nel 1923, tratto dalla novella La morte addosso.
Due persone si incontrano in una stazione: un avventore che ha perso il treno e l’uomo, che sembra trovarsi per caso in stazione. Tra loro inizia un dialogo. Scopriremo nel corso dell’azione che l’uomo è affetto da una malattia mortale, e sta vivendo probabilmente i suoi ultimi giorni. Per resistere alla disperazione si tuffa con l’immaginazione nella vita di sconosciuti, si crogiola nella futilità delle loro esistenze cercando di razionalizzare e convincersi così dell’inutilità della vita, per potersene alfine distaccare. Impresa che, tutto sommato, appare (a lui e a noi, spettatori) impossibile.
Per prima cosa analizzeremo alcuni aspetti dei due spettacoli e proveremo, poi, a trarne qualche riflessione. Partiamo dalla versione Bacci/Marconcini (rispettivamente regista e attore).
La sala Ryszard Cieslak è nuda, i proiettori a vista, la luce omogenea e neutra. Nello spazio quadrato, lungo tutto il perimetro, sono collocate panche e sedie per il pubblico. Al centro della sala alcune sedie sistemate con una particolare disposizione, suggeriscono la sala d’aspetto di una stazione.
L’uomo dal fiore in bocca (Dario Marconcini) attende seduto su una panca in fondo alla sala, in mezzo al pubblico che prende posto. Una volta sistemato quest’ultimo, un tema musicale segnala l’inizio dello spettacolo. Musica e costume (uno spezzato elegante) situano nel passato la svolgimento dell’azione.
L’Uomo dal fiore in bocca (che di qui in avanti chiameremo semplicemente uomo) si aggira per la sala guardando gli spettatori seduti al centro (che si trasformano negli avventori della stazione). Diversamente dal testo originale, è solo in scena – ed è il pubblico a essere investito del ruolo di interlocutore. Ha un fazzoletto con cui si copre la bocca (segnale, fin dall’epoca della tisi, che qualcosa non va). Inizia il monologo. L’attore si rivolge, di volta in volta, a un diverso spettatore, occupando le sedie lasciate appositamente vuote (da notare come si sia ricreata, sulla scena e nella scelta della stessa, la situazione esistenziale dell’uomo che si descrive, precisamente, come sedia in attesa di essere occupata dalla vita degli altri).
La recitazione di Marconcini è un mistero a descriversi: per prima cosa, l’attore ha il fascino dell’uomo di una volta. Risulta già in se stesso la personificazione del proprio personaggio. Come si legge nelle sue note, il rapporto col testo è di lunga data e intimo – intimità che emerge nel modo in cui si accosta al testo, nel modo in cui lo ascolta e restituisce. Il parlare è scandito, scolpito con precisione e attenzione. L’andamento del suo recitare può essere traslato nell’immagine di un campo arato – pochissimo scarti minimi risaltano su un’uniformità mai monotona. Il monologo scorre, senza intoppi, col ritmo costante di un fiume che va verso il mare.
Uno dei meriti maggiori di questo tipo di recitazione è la purezza con la quale si restituisce il testo – cristallino, come un vetro. L’attore è strumento. Calibrato, ma non invisibile. Discreto. L’energia circola fra interprete e spettatori, mentre il testo è offerto al pubblico nella sua essenza – insieme complesso, aspro e spigoloso. Come un minerale.
La seconda versione alla quale assistiamo è firmata da Gabriele Lavia (in scena, lo stesso Lavia nel ruolo del protagonista, Michele Demaria e Barbara Alesse).
La sala grande del Teatro Era, la Thierry Salmon, è stata trasformata: aggiunte diverse file di poltrone, è stata ricreata la soluzione con palcoscenico rialzato, sipario, arlecchino (potremmo definirlo semi boccascena all’italiana, di impianto tradizionale).
Il sipario fa da cornice a una scenografia mastodontica, avendo scelto di ricostruire una sala d’aspetto di una stazione d’altri tempi. Sullo sfondo una vetrata in pioppo e vetro, con al centro un grande orologio privo di lancette; una grande panca di legno; un lampadario che cala dal soffitto. Il pavimento è formato da 92 tasselli d’abete e ricoperto da uno strato di decorazione a motivi geometrici. Tutto è improntato al realismo e a un’estrema verosimiglianza (orari dei treni inclusi). Anche le scelte di illuminazione, costumistica e interpretazione dimostrano il medesimo intento (al punto che l’avventore, nel togliersi le scarpe e i calzini, sgocciola acqua).

Se nell’uso delle luci emergono solo due momenti di rottura di tale paradigma (le apparizioni quasi metafisiche della moglie, ma soprattutto la scena in cui l’uomo mima i gesti dei giovani di negozio), nella recitazione si percepisce, all’interno della vena naturalistica, una leggera tendenza alla macchietta: la coppia uomo/avventore si comporta spesso come un duo comico, quasi clownesco. Ma giusto quel tanto che basta a dare un leggero colore.
Nel complesso, l’andamento dello spettacolo risulta un po’ sincopato (sopratutto per chi conosce il testo originale). Al (lungo) dialogo fra i due uomini si alternano le fugaci apparizioni della donna, al di là della vetrata, e quindi qualche momento di interazione dell’uomo con la stessa.
Nell’ambito della messinscena, considerandone l’intento naturalistico, si notano alcune piccole incongruenze: c’è un temporale, al tuono dell’inizio si accompagna il lampo. Poi smette di piovere e restano i tuoni di sottofondo. Però, quando – a seguito di un lampo – va via la luce e la stazione resta al buio, la luce lunare sembra provenire dall’interno della stazione e non dall’esterno, ossia attraverso le vetrate, come ci si potrebbe aspettare.
Riguardo alle scelte interpretative, due momenti risultano particolarmente incoerenti. Il primo riguarda la decisione dell’avventore di non fuggire quando l’uomo insegue la moglie per spararle (decisione che sembra giustificarsi al suono di: “E dove altro dovrei andare? Devo finire lo spettacolo!”. Senza tener conto del fatto che svelare la presenza della rivoltella, prima del tempo, risulta opzione per lo meno discutibile). Il secondo dubbio lo solleva il momento in cui arriva il secondo treno, quando l’avventore inscena una pantomima inverosimile, che puntualmente glielo fa perdere. Anche se da un lato, come si legge nelle note di regia di Lavia, l’azione di perdere il treno è l’immagine di come l’avventore non faccia che perdere occasioni (forse l’occasione di vivere in consapevolezza come l’uomo, ma senza il tormento della morte); dall’altro, la realizzazione dei contrattempi (una gag comica di dubbio valore) risulta forzata e inverosimile. Vi si legge tra le righe: “Devo perdere il treno, indi per cui faccio cose buffe e senza senso solo per giustificare l’azione”.
Passiamo ora a qualche considerazione personale. Due differenze sostanziali sembrano determinare le molteplici diversità riscontrate tra gli spettacoli: una concezione dell’evento teatrale e una interpretazione del testo e della caratterizzazione del personaggio diametralmente opposte. Forse, potremmo aggiungere, anche una diversa relazione con l’opera di Pirandello.
Mentre la versione Bacci/Marconcini porge allo spettatore il testo in maniera asciutta – si potrebbe definirlo nudo, sia a livello testuale che nelle scelte interpretative; Lavia parte da un’elaborazione del testo originale, interpolandolo con brani tratti da novelle, muovendosi dal presupposto che vi è un legame molto forte, anzi praticamente una sovrapposizione, fra donna e morte nell’opera pirandelliana in generale. Denominatore comune con le altre novelle, oltre al tema della donna, infatti, quello delle «paure e del bisogno di esorcizzarle, dietro una qualche forma di maschera, imposta dagli altri e infine accettata, per quieto sopravvivere. Tra l’essere e l’apparire».
Eppure ci si domanda in che modo tutto questo sia effettivamente presente nell’atto unico pirandelliano. Il protagonista de L’Uomo dal fiore in bocca sembra avere smesso di preoccuparsi delle maschere – il suo è un rapporto a due con la morte, è esclusivo, niente altro esiste nella sua monotematicità ossessiva. Anche per questo la donna è scacciata ed esclusa, il suo affetto e la sua capacità consolatoria sono allontanati. L’uomo fugge, come sarebbero fuggite le stesse case di pietra, di Avezzano e Messina, se fossero state consce della morte; e per farlo, passa il tempo occupandosi della vita delle altre persone, senza piacere, bensì cercando di provare disgusto per la stessa – così da scacciare lo straziante dolore e la malinconia per la sua inevitabile perdita. Due sentimenti che, nonostante tutti i suoi sforzi, esplodono sinceri nel finale e nella celebre battuta delle albicocche: il piacere della vita, il suo gusto e la sua dolcezza, contro la dolcezza crudele della parola “epitelioma”. L’immagine che proviene dal cuore (le albicocche) versus quella generata dalla ragione (i giovani di negozio che incartano i pacchi). L’anelito dell’anima a confronto con la volontà del raziocinio.
Questa lucida consapevolezza del protagonista è vista e letta in modi diametralmente opposti. Il carattere stesso del personaggio, in Lavia sembra travisato: come può l’uomo, che si dichiara simile a una sedia pronto a essere occupato dalle vite degli altri, perdersi in discorsi filosofici, prima, e poi nelle disquisizioni e, ancora, nei gesti scurrili che propone la medesima interpretazione? Basti pensare al succitato episodio dell’arrivo del secondo treno. Inserito di sana pianta nella struttura della pièce, ne interrompe l’azione, separando due momenti catartici: il famoso monologo “Se la morte signor mio…” dalla parte sulle albicocche e i saluti finali. Seppure, inizialmente, si è portati piacevolmente a pensare che il regista abbia deciso di tagliare il finale ricreando, con un andamento circolare, la situazione dell’inizio, si resta in realtà delusi: dato che il risultato è quello di vedere sminuita la famosa frase delle albicocche (altresì essenziale al senso del portato pirandelliano).
Le due versioni rimandano, quindi, ad atmosfere sostanzialmente diverse. La prima, algida e astrale, lontana dalle quisquilie del quotidiano, resta su un altro piano, in certo senso universale. La seconda, umana, pienamente umana, si immerge nel marasma delle preoccupazioni futili. La disperazione mostrata, del resto, è un gioco di follia, oppure lo stereotipo stesso della follia.
Ben vengano la rielaborazione e la manipolazione, ma perché continuare a riferirsi a L’uomo dal fiore in bocca se così poco resta del suo carattere originale? Perché non modificare anche il testo pirandelliano piuttosto che rimanervici aggrappati? Viene il dubbio, osservando la scenografia, che l’elemento più accattivante dell’opera fosse proprio il poter sfruttare l’occasione per ricreare una tale scena – mastodontica, d’effetto e, ovviamente, costosa. Una scenografia che, senza dubbio, regala momenti magici, quali l’inizio, quando un rumore assordante e le luci aldilà della vetrata rappresentano pienamente l’arrivo e la presenza del treno. E poi l’apparizione della donna – insieme metafisica e fantasmatica. Eppure questi momenti restano lontani dall’essenza e lusingano (a che prezzo?), fondamentalmente, solo gli occhi.
Le due versioni rispecchiano altrettanti modi di intendere il fatto teatrale: il teatro da una parte, e lo spettacolo dall’altra (dicotomia cara a Bene). Da un lato, Bacci/Marconcini: lo spazio nudo, il rapporto stretto con il pubblico, un attore che, da solo (e senza l’aiuto della scenografia), tesse la trama dell’energia che caratterizza l’incontro. Ovvero, il teatro. Dall’altro Gabriele Lavia, la sua scenografia imponente, la lontananza dal suo folto pubblico, che si pasce e rimane incantato da un’ambientazione degna di Harry Potter – e che però non manca di postare, durante l’intero spettacolo, simpatiche foto, modificate con simpatiche app che fanno scegliere il colore del carattere per scrivere: “Baci dal Teatro Era. L’uomo dal fiore in bocca”. Ovvero, lo spettacolo.
Ovviamente ci si potrebbe limitare a dire che è una questione di gusto o preferenze. Di scelte estetiche. Etiche, prima ancora che economiche. A ciascuno le sue. Qualche incongruenza in meno, però, non guasterebbe.

Gli spettacoli sono andati in scena:
Teatro Era

Parco Jerzy Grotowski, Pontedera (PI)

sabato 28 gennaio
L’uomo dal fiore in bocca
di Luigi Pirandello
con Dario Marconcini
regia Roberto Bacci
produzione Associazione Teatro Buti

sabato 28, a seguire
L’uomo dal fiore in bocca e non solo…
da Luigi Pirandello
adattamento Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Michele Demaria e Barbara Alesse
scene Alessandro Camera
costumi Elena Bianchini – Laboratorio di Costumi e Scene del Teatro della Pergola
musiche Giordano Corapi
luci Michelangelo Vitullo
regia Gabriele Lavia
produzione Fondazione Teatro della Toscana
foto di scena Tommaso Le Pera