La vetrina romagnola Colpi di scena si fa “grande” e presenta un’inedita versione dedicata allo Sguardo nel Contemporaneo.

Quando una formula ha successo, la strada intrapresa tende spontaneamente a biforcarsi. Si può insistere e battere territori conosciuti, quindi perseverare nell’offerta di una qualità (in primis, organizzativa) ormai consolidata e garantita; oppure si può tornare a esplorare nuove vie e, di conseguenza, provare a giungere in luoghi inediti e mettersi in gioco in prima persona.

È evidente come non esista la risposta giusta a una eventuale domanda su quale strada scegliere, i percorsi dell’arte hanno natura radicante e rizomatica e Colpi di scena lo dimostra splendidamente. Pur al riparo dai rischi della “trasgressione” grazie alla formula della “vetrina” con cui «intende sostenere il coraggio che le Compagnie ospiti, sia affermate che emergenti, hanno dimostrato nel voler creare e produrre nuove proposte teatrali», l’efficientissima brigata capitanata da Claudio Casadio e Ruggero Sinton offre con questa «“edizione zero”, volta a indagare le nuove espressioni del Teatro Contemporaneo», il proprio contributo all’indagine drammaturgica nell’estetica delle arti performative.

Anche se non si tratta di un contributo “in senso stretto”, Colpi di scena – Sguardo nel Contemporaneo è qualcosa di altrettanto fondamentale se pensiamo alla sostanziale assenza di luoghi di incontro tra operatori e artisti nel panorama italiano (mentre è una consuetudine in quello europeo) e al contesto socio-economico-sanitario ancora di profonda incertezza determinato dal combinato disposto di perdurante pandemia e timide risposte normative messe in atto dai legislatori.

Che il senso del contemporaneo sia, tra l’altro, di per sé sfuggente, lo hanno poi dimostrato le prime proposte della prima giornata di kermesse. Non abbiamo, infatti, assistito a restituzioni spettacolari in “forma” multidisciplinare, mediale o generalmente eretica, tanto meno ad attraversamenti di contenuti morali e normativi dei soggetti coinvolti dalle drammaturgie o dei “materiali” del (meta)teatro. Tuttavia, la sperimentazione si interroga sempre su margini e su rotture, sul disequilibrio e sulla perdita di status ideale e concreta e non deve necessariamente sottoporsi a una forzata ricerca di sovversione a tutti i costi. La forma negativa, la dissonanza rispetto all’immaginario e la materializzazione della complessità dei nostri tempi bui, vale a dire i cardini della ricerca estetica del contemporaneo, possono assumere le sembianza di apparente semplicità, linearità e addirittura di drammatizzazione narrativa.

Il primo spettacolo, non a caso, si presenta nella rassicuranti vesta di reading. L’estinzione della razza umana, firmato da Emanuele Aldrovandi dell’Associazione Teatrale Autori Vivi, «pone al pubblico tante domande e tante frustrazioni, profonde paure e ferite» attraverso un interessante lavoro di scrittura di quattro protagonisti che si confrontano secondo le modalità iper-narcisistiche della nostra “sgraziata” epoca. Modalità ben presenti e descritte dal testo nel momento in cui racconta come di fronte a un «evento catastrofico che blocca completamente le nostre routine e ci porta a rivoluzionare le nostre abitudini» invece di «farci domande che altrimenti non ci faremmo e fa uscire, anche involontariamente, le nostre frustrazioni, paure e ferite più profonde», non si trova altro o di meglio da fare che dare sfogo alla profonda incomunicabilità che caratterizza ogni forma di dialogo – addirittura quello “intrapersonale” – nel nostro catastrofico oggi.

L’ambientazione è quella di un condominio dove abitano, tra gli altri, due giovani coppie. La prima è composta da una ostetrica credente e da un ex professionista che ha investito ogni propria risorsa nella costruzione di un agriturismo bio; la seconda, invece, da un esperto di marketing e pubblicità e da una – immaginiamo – cantante e organizzatrice di gruppi di acquisto solidale. Il contesto è quello di una pandemia descritta in termini tragicamente riconoscibili (dispositivi di protezione, lockdown, collasso del sistema sanitario, ecc) e  determinata da un virus che, trasformando gli esseri umani in tacchini, porta a crisi respiratorie spesso fatali. Il clima tra i quattro è di iniziale cordialità. Il casus belli è però dietro l’angolo (il tentativo dell’esperto pubblicitario di uscire e fare «una corsetta di mezz’ora» nonostante il decreto imponga il confinamento): da questo momento la relazione tra i quattro esplode all’esterno e implode all’interno. Non ci soffermeremo sui dettagli del loro “corpo a corpo”, ma non sorprende come le due coppie siano in profonda contraddizione innanzitutto con sé stesse, oltre che con l’altro, e come, all’iniziale tentativo di incontro, segua una vana ricerca della sintesi delle opposizioni che non potrà che dar luogo al compiersi della catastrofe. Tuttavia, c’è un dettaglio che perplime e lo fa, probabilmente, per esigenze di “chiusura” del cerchio drammaturgico. Infatti, se Aldrovandi “convince” nel costruire le dinamiche di “esplosione/implosione” e, attraverso esse, riesce a restituire gran parte della complessità del dibattito dell’epoca pandemica (dove le ragioni e i torti non si tagliano con l’accetta, ma avrebbero bisogno di menti e pensieri lungimiranti per dar luogo ad autentiche strategie di ripensamento culturale, sociale ed economico), il suo testo diventa purtroppo estremamente grossolano quando im-pone in maniera sbrigativa e moralistica un “punto definitivo” alla discussione attraverso “l’insorgere” di una figura dogmatica e la conseguente “morte” (in senso figurato e letterale) di chi a essa si oppone.

A seguire, è stata la volta di Lockdown Memory, l’ultimo lavoro della compagnia Instabili Vaganti. In questo spettacolo, la contemporaneità dei contenuti ammicca a una complicazione dei piani drammaturgici e mostra, tra le pieghe delle proprie sbavature, i margini di una performance dall’estrema potenza ideologica e ideale. Il duo interpreta sé stesso nella presentazione del loro ultimo progetto (Beyond Borders): frammenti video dai luoghi in rete (da Cile alla Cina, dall’India all’Iran), contributi dagli artisti coinvolti, ambientazioni sonore che spaziano da occidente a oriente, da Nord a Sud, e momenti squisitamente performativi sono funzionali nel completare la panoramica di una conferenza/spettacolo nata durante e conseguentemente al periodo di lockdown per riflettere sul contributo che l’arte può dare al fine di costruire un mondo migliore. Considerato come proposta degli Instabili Vaganti, Lockdown Memory è una testimonianza sincera e autentica di una concezione performativa che «investe dunque il concetto di comunità in una fruizione che non è più passiva o relativa al momento scenico, ma che si produce all’interno di una realtà sociale specifica e composta da individualità consapevoli della reciproca presenza e del loro tempo “storico”» (La performance post-strutturalista degli Instabili Vaganti). Tuttavia, se fruito scevro dalla consapevolezza che Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola stiano realmente mettendo in atto un’arte in diretta connessione con i tessuti sociali sparsi nei quattro angoli del continente, Lockdown Memory corre il rischio del didascalico e di una paradossale e contraddittoria deriva retorica nel momento in cui si affida scenicamente a un racconto più enfatico e verbale che performativo e immaginifico.

L’ombra lunga del nano della compagnia bergamasca Les Moustaches è un ripensamento, almeno a leggerne la presentazione, delle figure archetipiche di uomo, donna e coppia così come si sono storicamente costruite attraverso l’immaginario fiabesco, in particolare quello di Biancaneve. «La Compagnia trasforma la figura del nano in un simbolo della convenzione sociale maschile e Biancaneve come immagine rappresentante di quella femminile. In questa rilettura, Olo e Neve formano così il prototipo di una coppia ordinaria». Purtroppo, come accaduto in occasione de La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza che pure aveva portato la compagnia al trionfo al Roma Fringe Festival del 2020, L’ombra disperde le pur buone prove attoriali in un allestimento che maldestramente e drammaticamente lavora con e non sugli stereotipi e così finisce per corroborarli e non decostruirli “poeticamente”, come dimostra anche il fatto che la parte del nano sia stata interpretata da un nano, mentre quella della “culona” Neve dalla splendida e “perfetta” Ludovica D’Auria.

La chiusura della prima giornata è affidata a Il nero di Occhisulmondo. Siamo in presenza di un’intenzione ardita e che appartiene alla cifra stilistica della compagnia, vale a dire la ricontestualizzazione di un classico shakespeariano attraverso una operazione di ricostruzione del testo in una chiave resa contemporanea da inediti innesti testuali e una ri-costruzione storica, «sul quale viene operata una traduzione e un adattamento per tentare di immaginare un linguaggio più prossimo al nostro tempo».

Siamo in Europa, forse Parigi durante la strage del Bataclan, durante un attentato «in un’Europa dove il conflitto razziale, culturale, politico e sociale, viene esasperato da attacchi terroristici, da un nemico invisibile». La relazione tra il buoni e cattivi viene però esacerbata dall’interno, dalla machiavellica trama ordita da un personaggio di cui non si conosce il nome (in realtà nessuno viene mai nominato) ma che è con tutta evidenza Iago.
«In questo clima di paura e di perdita della sicurezza, un gruppo di persone, una classe dirigente, si ritrova bloccato all’interno di un Teatro dove si sta celebrando un matrimonio segreto» tra la donna che ha abbandonato ogni cosa pur di scegliere il proprio amato (ovviamente Desdemona) e il Nero/Moro.

Diverse le scelte suggestive e convincenti, dall’incipit (un gioco di luci che fa degli attori ombre sul palco e annunciano la nerezza morale della rappresentazione) alla gestione live della scena e dalle maschere spersonalizzanti al comparto sonoro; meno compiuto, invece, l’equilibrio dell’impostazione recitativa, risultata a tratti “calanti” e in altri sospesa tra la scelta performativa e quella interpretativa (in particolare per quanto riguarda il dialogo finale tra Otello e Desdemona), così come non ha convinto la gestione dei tempi, la cui eccessiva dilatazione ha edulcorato la percezione di un lavoro coeso, ma non ancora del tutto omogeneo e coerente.

Gli spettacoli sono andati in scena durante Colpi di Scena – Sguardo nel Contemporaneo
location varie, Forlì
30/09/2021

Teatro San Luigi
L’estinzione della razza umana
Reading
testo e regia Emanuele Aldrovandi
con Giusto Cucchiarini, Luca Mammoli, Petra Valentini, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi
assistente alla regia Giorgio Franchi
produzione Associazione Teatrale Autori Vivi e Teatro Stabile di Torino
in collaborazione con La Corte Ospitale – Centro di Residenza Emilia-Romagna

Teatro Testori
Lockdown memory
regia e drammaturgia Anna Dora Dorno
testo Nicola Pianzola
performer in scena Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola
performer in video Sun Young Park – COREA DEL SUD, Juliana Spinola – BRASILE,
Anuradha Venkataraman – INDIA, Cecilia Seaward – USA | SWEDEN, Jesus Quintero – USA | COLOMBIA, Ana Gabriela Pulido – MESSICO, Maham Suahil -PAKISTAN, Jialan Cai e Yuwei Jiang – CINA, Danial Kheyrikhah – IRAN
musiche originali Riccardo Nanni – 7 Floor
drammaturgia video Anna Dora Dorno, Nicola Pianzola
residenze Artistiche La Città del Teatro – Fondazione Sipario Toscana Onlus | Teatro Masini Faenza – Accademia Perduta / Romagna Teatri | Teatro Studio Mila Pieralli Scandicci – RAT Residenze Artistiche Toscane
con il sostegno di Accademia Perduta / Romagna Teatri | Teatro delle Donne

Teatro Il Piccolo
L’ombra lunga del nano
Les Moustaches
di Alberto Fumagalli
con la voce di Maria Paiato
con Ludovica D’Auria e Claudio Gaetani
costumi Giulio Morini
light design Eleonora Rodigari
aiuto regia Tommaso Ferrero
regia Ludovica D’Auria e Alberto Fumagalli
co-produzione Società per Attori e Accademia Perduta/Romagna Teatri

Teatro Diego Fabbri
Il Nero
da Otello di William Shakespeare
traduzione e adattamento drammaturgico Massimiliano Burini e Giuseppe Albert Montalto
dramaturg Giusy De Santis e Matteo Fiorucci
con Daniele Aureli, Amedeo Carlo Capitanelli, Chiara Mancini, Raffaele Ottolenghi, Matteo Svolacchia, Giulia Zeetti
maschere Mariella Carbone
scena e costumi Francesco Skizzo Marchetti
disegno luci Gianni Staropoli
sartoria Daniela Temperini
producer Elena Marinelli
regia Massimiliano Burini
co-produzione Occhisulmondo – Caracò – Fontemaggiore Centro di Produzione
con il sostegno di Istituto Italiano di Cultura di Parigi, Theatre de la Ville Parigi Festival Chantier d’Europe, La Corte Ospitale Rubiera, Teatro delle Briciole Parma, C.U.R.A. Centro di Residenza Artistica Umbra, Trebisonda, Centrodanza, Corsia Of, The Foundation of the Positive Changes (Polonia) e del programma europeo Erasmus+