L’appello alla misericordia degli spettatori

A partire dal 2 novembre, al Teatro Argot è in scena quella che probabilmente è l’opera più complessa di William Shakespeare, ossia La tempesta, talmente complessa che in questa occasione il risultato lascia a desiderare.

Tra tutte le opere della produzione di William Shakespeare, le ultimissime sono probabilmente le più ardue da interpretare e decriptare; alcuni dei limiti strutturali e narrativi, forse dovuti anche alla stanchezza del baldo, che si sarebbero potute manifestare come carenze stilistiche e compositive qualora fossero state firmate da altri autori, a partire dall’immensità e dalla profondità inesauribile dell’universo shakespeariano assumono tutt’altra dimensione di senso. Da questa prospettiva, non è sufficiente ritenere Racconto d’inverno e soprattutto La tempesta opere strampalate e incoerenti: pensiamo proprio alla Tempesta, dove in una sorta di commiato è lo stesso autore, attraverso lo straordinario monologo conclusivo di Prospero, a invocare la pietà degli spettatori, in uno sfondamento metatestuale epocale della quarta parete. Si tratta del monologo nel quale i personaggi dello spettacolo che abbiamo appena visto si dichiarano tali, appunto “personaggi”, ossia “finti” e fantastici, fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni; ed è come se l’autore chiedesse venia nella consapevolezza delle incongruenze di un testo dove il piano storico e quello magico si confondono in maniera squilibrata, dove la scena è occupata principalmente da quel Prospero che è un ulteriore alter ego dell’artista, che definisce, compone e scompone gli eventi a suo piacimento con la magia come fa lo scrittore con le parole.

Questo il materiale di partenza per chi, come Maurizio Panici, decide di cimentarsi in quello che è il testo più complesso e controverso di Shakespeare; in scena al Teatro Argot, questa versione della Tempesta parte da intuizioni azzeccate, ma nel complesso lo spettacolo delude impoverendo l’energia del testo. Se infatti il barocchismo sperimentale del testo originale richiederebbe una regia, una scenografia e una recitazione essenziali e minimali, Panici trascura la lezione di Strehler in questo senso: al barocchismo del testo sovrappone il barocchismo di costumi incoerenti, per non parlare dell’introduzione delle musiche dei Pink Floyd completamente fuori luogo. Risultano inefficaci anche le interpretazioni urlate degli attori: Pier Giorgio Bellocchio è un potente quanto eccessivo Calibano, dal momento che la sua prova fisica è encomiabile ma fuori misura, come fuori misura sono le recitazioni goliardiche in napoletano dei marinai tormentati dalla trama di Prospero.

Luigi Diberto, già solo per la sua impostazione, è un buon Prospero che però nel vigore dell’interpretazione smarrisce alcune battute; bella anche la sua staticità sul trono, che è complementare all’agilità incontenibile dello spirito Ariel, interpretato da una Claudia Gusmano che spia le vicende del dramma con sguardo sempre concentrato e inquietante, e che perde di verve paradossalmente proprio quando – vestito come Michael Jackson – recita le sue battute principali con l’accento siculo che ne fa una specie di scugnizzo mafioso. Un’occasione persa perché l’idea scenografica di fondo della divisione della scena in due livelli, quasi fosse una trasposizione teatrale della Trasfigurazione di Raffaello (che non a caso, come sosteneva Nietzsche, è l’opera più metalinguistica del Rinascimento perché mette in scena la trasfigurazione apollinea nel fulgore del Cristo trionfante sulla follia del giovane ossesso nella parte inferiore del quadro), sarebbe potuta risultare intrigante, a partire proprio dall’opposizione Prospero/Calibano. Sarebbe bastato puntare su questa idea e far convogliare tutto il resto in essa, invece lo spettacolo diventa inconcludente. Ma di un’inconcludenza diversa per ordine e grado da quella già preventivata dalla penna di Shakespeare: qui, la richiesta finale di misericordia di Calibano dinanzi al baratro di ciò a cui abbiamo assistito rischia di rimanere un appello che nessuno è in grado di accogliere.

Lo spettacolo è ancora in scena:
Teatro Argot
via Natale del Grande, 27 – Roma (Trastevere)
dal 2 novembre
dal martedì al sabato ore 20.30, domenica ore 17.30

Argot produzioni presenta
La tempesta
di William Shakespeare
regia Maurizio Panici
con Luigi Diberti, Pier Giorgio Bellocchio, Matteo Quinzi, Claudia Gusmano, Valentina Carli, Riccardo Sinibaldi, Antonio Randazzo
scenografia Francesco Ghisu
costumi Anna Coluccia
light designer Giuseppe Filipponio
musica Giovanni Di Giandomenico