Ovvero dell’eterna impossibilità dell’amore

Al Teatro Don Bosco di Roma è andata in scena La Traviata, Opera in tre atti dal libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma La dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio, musica di Giuseppe Verdi.

È davvero importante che in questo momento, in cui la cultura e la promozione artistica subiscono un attacco senza precedenti, ritornare a mettere in scena i capolavori che hanno fatto grande la nostra lirica; un’operazione certamente non facile né agevole, a cui però il cinema-teatro Don Bosco si fa promotore da anni, decentrando e rendendo popolare un linguaggio scenico e musicale fino a pochi decenni fa esclusivo patrimonio di alcune aristocrazie. Ed è precisamente questa umiltà recitativa, questa musicalità carica di tradizione eppure così vicina all’orecchio comune, che fa da sfondo a una rappresentazione spartana (rispetto ai grandi e inavvicinabili allestimenti dei teatri stabili e delle loro fondazioni), elementare, senza barocchismi né manieristici virtuosismi, dove è possibile ritrovare intatta la purezza lirica, la poetica assoluta del Verdi, lontane da qualsiasi forma di retorica o esegesi mistica.

Tutto è riportato sulla viva terra, a contatto con gli umori quotidiani delle schermaglie d’amore, del gioco che avvinghia gli amanti e che il destino allontana. Nella tumultuosa relazione tra Alfredo e Violetta, vi è tutta la passione del Verdi per l’emozione improvvisa e imponderabile delle passioni che investono l’uomo senza che egli possa sottrarsi alla loro aura magica, dall’arcano scompiglio che portano nella sua vita. L’incoscienza dell’amore e del dolore che porta con sé, risulta essere la cifra stilistica di tutta l’opera verdiana e di questa Traviata in particolare. I protagonisti sono sì agenti attivi, ma di un disegno che gli sfugge, che va al di là delle loro stesse volontà, che li disegna e li forgia a sua immagine e somiglianza.

Nello scorrere dei tre atti, dall’approccio impacciato iniziale di Alfredo alla scoperta dell’amore ricambiato dalla bella cortigiana Violetta, fino al tragico epilogo della sua morte prematura che stronca in un sol colpo ogni speranza di felicità, si assiste appassionatamente alla scoperta della finitezza, o meglio, della finitudine di ogni cosa, anche dell’amore più grande e travolgente. Tutto passa; tutto deve passare, in un trapasso crudele a cui tutti gli uomini sono costretti da una natura “matrigna” – come direbbe Leopardi – che allude e promette una felicità quanto mai impossibile. E forse, mai come in questo caso, la celebre battuta pronunciata dal disilluso intellettuale di sinistra Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores) nel C’eravamo tanto amati di Ettore Scola: «Piuttosto che aspirare a una impossibile felicità è meglio costruirsi dei bei ricordi per il futuro», registra puntualmente l’energia vitale, la carica erotica che emanano da questa Traviata che, facendo proprio il moto ovidiano del carpe diem, sa cogliere la bellezza e la felicità nell’attimo vissuto, senza perder tempo, nell’amarsi qui ed ora perché “doman non v’è certezza”, parafrasando la famosa elegia di Lorenzo il Magnifico.

Questo cogliere l’attimo, porre e ricostruire l’atto come potenza agita e non come semplice intenzione impotente, permette a tutta la messa in scena la capacità unica di comunicare al pubblico l’estrema attualità dell’opera verdiana e del testo di Dumas figlio. La pregnante esecuzione musicale dell’orchestra, la presenza vocale imponente e ben ritmata dei protagonisti (in testa un Alfredo strepitoso e una Violetta encomiabile per forza e coraggio), una dialettica delle luci in cui il tono non sbava mai, anzi esalta le rotture e le ricomposizioni della narrazione, l’allestimento che si fa basico postulato della stessa recitazione, oltre alla limpidezza del messaggio verdiano nel rincorrere sempre, anche a costo della vita, le proprie passioni, danno davvero l’impressione di trovarsi di fronte ad un crogiuolo empatico senza tempo, in cui è, e sarà sempre possibile, ritrovarsi. Insomma, dopo Rigoletto e Il Trovatore, Verdi ci consegna un altro gioiello del nostro melodramma, portando a termine quella “trilogia popolare” con cui ancora ogni amante della lirica deve, e non può, non fare i conti almeno una volta nella vita, trovando spunti ed emozioni che neanche lui sospettava di avere.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Don Bosco
via Publio Valerio 63 – Roma

Traviata
opera in tre atti
libretto Francesco Maria Piave
musica Giuseppe Verdi
(Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853)
Ambientazione: Parigi e sue vicinanze, 1850 circa
Maestro concertatore e direttore d’orchestra Marco Boido
Personaggi:
Violetta Valery (soprano) Fausta Ciceroni
Flora Bervoix (mezzosoprano) Rita Sorbello
Annina (soprano) Michela Moroni
Alfredo Germont (tenore) Antonello Bille
Giorgio Germont, suo padre (basso) Alessio Magnaguagno
Il dottor Grenvil (basso) Silvio Riccardi
Gastone, Visconte De Letorieres (tenore) Andrea Fermi
Il Barone Douphol (baritono) Daniele Antonelli
Il Marchese D’Obigny (baritono) Antonino Zafiro
Giuseppe, servo di violetta (tenore) Lino Ottaviano Santino Tomaselli
Commissionario e domestico di Flora (basso) Giulio Barocas
Piccadori, zingare, servi di Violetta e Flora, Maschere Mirabiles Cantones