La necessità della parola

Nessun segno visivo. Nessuna scena. Una sedia, una postazione per musicista. La parola. Dopo undici anni di assenza dai palchi. Un ritorno. Trionfale. Come a rivendicarne un habitat, naturale. Non un abbandono, semmai la noncuranza nel fagocitare platee e palchi, evitando quindi ammiccamenti e giri di marchette. Una scelta. Enia non è stato in silenzio in questi anni. Né fermo. Ha scritto, pubblicato, raccontato storie, vere e inventate, sicuramente non indifferenti.

Non ostenta stilismi vocali, né si sforza di recitare in maniera barocca. Accenna dei gesti – estensioni alla dialettica – che li fanno sembrare la naturale figura fisica del verbo: purezza e qualità della drammatizzazione in un gioco sapiente di inganno e verità recitativa. Non costruisce artifici audiovisivi, non servono. Gli scenari sono invisibili. Eppure tangibili. Penetranti. Delle onde in tumulto se ne avverte il terrore, nei bui affannosi dei soccorsi in mare ai disperati. I barconi in balia della morte, i corpi in mare a lottare per guadagnarsi quello sbocca d’aria a tenerli in vita, i bambini lanciati come “palla medica” da soccorritore a soccorritore strappati all’ingoiare dell’acqua. E attorno, la terra ferma. Per modo di dire. Tra l’Africa e l’Europa. In Italia. Che qualcuno vuol far credere sia un paese che rifiuta i popoli. Qualcuno si è gonfiato di megalomania fino a inventarsi, anzi a reinventarsi, le questioni di razza, di sovranità, di determinismo e superiorità culturale per nascita. Qualcuno si è inventato un mucchio di minchiate e un 30% (che poi è una minoranza) ci ha creduto.
Prima di partire per Lampedusa, Enia chiede al padre di accompagnarlo. Vivono lontani. Da anni. Il loro rapporto è fatto di silenzi. Quel silenzio che insegna più di tanti buoni consigli. Quel modo mediterraneo di aver competenza delle cose del mondo, per l’osservare e l’assimilare le metafore e i segnali non verbali di azioni appena accennate nel circostante. Quasi una didattica del minimalismo. Un codice muto. Fatto di gesti essenziali, concreti, umani, cunchiusi (opportuni). Padre e figlio, un archetipo classico, a condividere il dramma per cui gli occhi si fanno diretti mediani allo spaesamento dell’anima. Un conto è sentirne, esserne informati, e sì, provare compassione, solidarietà, rabbia. Un altro viverne. Da spettatori. E da “protagonisti”.
Qualche volta, nelle due ore di scena, intona un canto. Senza lirismi – benché accompagnato da chitarra – senza strategie. Una maniera, di tradizione antica grecanica, a spezzare le fila ai grumi di un susseguirsi nodoso, e restituire vigore all’opera.
Il responso sensitivo è potente. Non si assiste più ad una rappresentazione teatrale. Mutata è la condizione dello spettatore. Enia, rivive le scene. Lo dice il suo colorito, che trasmette in maniera cutanea cosa avverte. Le espressioni, prive di metodo mimico, ma autenticamente indicative di suggestione, più che intenzione. Lo manifesta la sua fatica. Una fatica di spirito.
Inutile continuare sul lessico, la supremazia della fascinazione affabulatoria, la potenza maliosa dell’oralità. O dare conto alle cromaticità di toni fonetiche, le strutture drammaturgiche, i significanti. Perché non ci si fa caso. Anche se con le antenne dritte del mestiere… “L’abisso”, lo si guarda e ci inghiotte. Tenendoci svegli. Attivi. Arrabbiati. Indignati. Bagnati di quel mare. Di pelle scura. Stuprati. E vibranti di tenue speranza. Di essere arrivati “all’america”.
Necessario. Urgente.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Sociale

via Felice Cavallotti, 20 – Brescia
sabato 10 novembre

L’abisso
tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio editore)
uno spettacolo di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri
Produzione Teatro di Roma; Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo; Accademia Perduta; Romagna Teatri

Foto di Futura Tittaferrante