Sisifo non deve morire

Il gruppo Trasgressione.net (composto da detenuti di Bollate, Opera e San Vittore) rivisita il mito greco – al Teatro Verdi di Milano – sotto la guida artistica e umana di Angelo Aparo.

È sotto gli occhi di tutti il grande successo e la diffusione che stanno avendo pellicole che devono la loro risonanza anche alla presenza di protagonisti particolari: già solo nell’ultimo anno possiamo parlare dei detenuti di Rebibbia che hanno dato risultati sorprendenti sotto la mano registica dei fratelli Taviani in Cesare deve morire; e ancora di Aniello Arena, straordinario attore di punta del recentissimo Reality di Garrone. Ma il teatro è ben altra cosa: la performance vive d’immediatezza, d’imprevisti, del qui e ora che mancano inevitabilmente nella dimensione cinematografica nella quale c’è molto più tempo per prepararsi, per studiare, per rifare le scene qualora le riprese non vadano bene.

Il film dei Taviani è il risultato che più si avvicina alla dimensione teatrale de L’acqua di Sisifo – lo spettacolo andato in scena il 9 novembre al Teatro Verdi, sotto la guida Angelo Aparo sia in veste di regista ma anche – almeno un po’ – di quel padre – che a molti di loro è mancato.

Due i punti in comune: l’intelligenza dei registi nel lavorare su un testo forte – la cui trama ha molto a che fare con i vissuti di chi lo interpreta; e la messa in scena di tutto quanto c’è dietro allo spettacolo – questo soprattutto nel film, in quanto sul palco del Verdi si è prediletto un lavoro di tipo laboratoriale più che performativo.

La premessa è che gli “interpreti” non hanno vocazioni attorali innate, né cognizioni teoriche relative alla presenza scenica, alla memorizzazione del testo o all’immedesimazione. Il plusvalore dello spettacolo teatrale risiede nella spontaneità della messa in scena, in quanto i detenuti delle diverse carceri, pur conoscendo bene la loro parte e la trama del mito, non hanno mai potuto lavorare insieme: nessuno di loro sapeva come l’altro avrebbe reagito sul palco. Da questo genere di improvvisazione sono scaturiti momenti esilaranti – nonostante la tragicità della vicenda – perché i detenuti hanno infuso nei personaggi la propria personalità, i dialetti, il vissuto individuale: nessuno ha dovuto o potuto fingere né immedesimarsi in qualcun altro, dato che il teatro è stato inteso come terapia, riconquista della libertà, educazione a rispettare se stessi e, soprattutto, ognuno di loro è Sisifo.

Il senso di un lavoro su un testo di questo tipo è lampante se si conosce la trama: Sisifo è il re di Corinto che sfida gli dèi, trasgredendo i loro ordini, per riportare l’acqua nella sua città dove da molto tempo si vive un periodo siccitoso, causato dalla cattiva gestione del re di questa risorsa primaria. Egli ha peccato di ybris – “presunzione”: nucleo fondamentale del mito e, dunque, del teatro antico – e, per questo, dev’essere punito con la morte. Ma egli riesce ad ingannarla una prima volta e, nonostante alla fine sia condotto nell’Ade, evade dall’Oltremondo e vive sulla Terra un lungo periodo di latitanza. Com’è naturale, il mortale Sisifo raggiungerà la vecchiaia e si troverà a dover morire davvero – ma, a questo punto, la punizione degli dèi si farà atroce: sarà condannato a un’eterna inutilità. L’immortalità – che gli dèi gli concedono – sarà votata al trasporto di un masso che continuamente rotolerà giù dalla montagna sulla quale il presuntuoso re lo spinge.

Ed è a questo punto che emerge il valore terapeutico e catartico del teatro: i detenuti hanno avuto modo di vedere dal di fuori e poi reinterpretare la loro stessa vita, affrontando con consapevolezza i nuclei della trasgressione, della punizione inutile e priva di senso (come lo è la detenzione in carcere), del rapporto conflittuale tra l’individuo e le istituzioni, tra la figura del padre e quella del figlio – dato che Sisifo sfida gli dèi solo quando si accorge del loro egoismo e che non ascoltano le sue preghiere, abbandonandolo nel momento di maggior bisogno.

Non a caso, il momento più teso dello spettacolo è quello delle confessioni e delle riflessioni a caldo dei detenuti che hanno recitato: sei di loro salgono sul palco per parlare del valore di questa esperienza e, raccontandoci le loro vite – al di là della commozione che suscitano – fanno emergere il problema fondamentale sul quale ogni società civilizzata dovrebbe interrogarsi: il detenuto è qualcuno che ha sbagliato perché è stato lasciato solo, privo di una guida (sia la famiglia o le istituzioni) che, nei momenti delicati, lo potesse aiutare. Tutti denunciano il rancore verso i padri, così come riconoscono la propria colpa nell’aver utilizzato l’abbandono quale scusa, pretesto per indugiare nella debolezza, nell’inerzia o nella violenza – senza comprendere che i loro limiti sono simili a quelli altrui.

Assistere a questo tipo di spettacoli aiuta a capire il valore della massima “rieducare e non punire” – che andrebbe applicata all’intera realtà carceraria: è infatti lampante, nelle loro testimonianze, quanto l’abbandono subìto abbia contribuito a mantenerli in uno stato adolescenziale, impedendo loro di imparare a rapportarsi con gli altri in maniera civile, comprensiva, dialettica, lasciando al rancore e all’aggressività lo spazio per crescere fino a esplodere in atti violenti.

Vivere un’esperienza come questa sarebbe tanto utile ai rappresentanti del potere, delle istituzioni, della politica, che spesso parlano delle persone diverse, disagiate, emarginate, come problemi piuttosto che come risorse: risorse per capire come, in fondo, siamo tutti esseri umani fallibili. Interessanti, a questo proposito, le reazioni partecipative e calorose delle guardie carcerarie che hanno assisito allo spettacolo: forse, dopo aver ascoltato le confidenze a cuore aperto dei detenuti, hanno dimenticato per un attimo il proprio compito comprendendo che, in fondo, la radice comune è una sola, al di là dei “ruoli” che ricopriamo: umanità.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Verdi
via Pastrengo, 40 – Milano

L’acqua di Sisifo
regia di Angelo Aparo
con i detenuti del gruppo Trasgressione.net (delle carceri di Bollate, Opera, San Vittore)