Mississippi, diventa mare

Al Teatro Trastevere, in scena Lady Holiday Mississippi Drunk, un testo di Alessandra Caputo sulla vita di Billie Holiday, per la regia della stessa Caputo e di Simone Fraschetti.

Un uomo ha un cilindro per cappello (Rodolfo V. Puccio), imbraccia un basso elettrico; Lady Day (Valentina Conti) fa il suo ingresso dalla platea con movenze rettiliane. Di fatto Lady Holiday Mississippi Drunk è un pas de deux. Alle reminiscenze della diva che ripercorre le ferite della sua vita risponde la musica, in uno scambio in punta di piedi sulle note del blues.

La regia allarga un “angusto” testo monologante sdoppiando la voce narrante di Billie Hollyday in due personaggi distinti ma che si attraversano: la musica e il fantasma di morte della singer nera. Tanto la forza interpretativa di Billie era chiusa in una voce quasi timida e trattenuta, quanto il fantasma interpretato da Valentina Conti è grottesco, acido, quasi velenoso. Il pubblico è anch’esso sospeso al pendolo soave e crudele tra il farmaco (il jazz) e il taglio (la morte). Vita e morte si tengono per mano dentro un corpo oltraggiato: la musica suggerisce, il fantasma raccoglie e rilancia quasi con rancore.

Le ferite ci appaiono in immagini sonore fuse insieme tra musica e parola: i genitori pressoché bambini; il bordello in cui avviene l’apprendistato con il corpo esposto ma anche con il jazz; il duro percorso da ballerina di fila prima di essere apprezzata come talento canoro. La voce di Valentina Conti ha la maschera ghignante di chi è ormai morto e può raccontarsi con distacco, come se si parlasse di un altro. È la parte disincantata e offesa, che non ha più niente da farsi perdonare né da chiedere, come se Billie parlasse dall’aldilà, da una posizione finalmente al riparo dal male o dalla tentazione di soffocarlo con la droga o con l’alcool. Il successo ha il paradosso amaro di essere pagato con una sofferenza sorda, capace di trovare piccole pause solo nella buona musica (che diventa mare) o nell’amore di un uomo che conosca il dolore e la passione di essere nera, di essere “niente”.

In mezzo, proprio come un fiume che divide una vallata, sta la ballata di Adriano Marenco che Rodolfo Puccio accompagna come in una cerimonia metodista: per chiedere perdono? Non credo. Per ottenerlo ancora, forse, anche se lo si è rubato già. Il dio del jazz può perdonare chiunque sia capace di rendere vivo un dolore, una passione, un’innocenza tradita, come uno specchio che riflette – farmaco e taglio – la parte più vera di noi, quel niente dove edificare cattedrali e santuari sonori in memoria di una integrità illusoria e solo possibile da vagheggiare: «Mississippi, ti prego, diventa mare».

Basta una ferita e un po’ di talento. Di fatto la drammaturgia è la danza di un corpo di parola abbracciato alla musica, tra la narrazione e il canto, tra il fiume e il mare, tra galleggiamento e lasciarsi andare giù, dove il buio si fa fitto e tutto finisce nelle acque che un giorno ci generarono. Ma il fiume – come insistono Caputo e Marenco – deve diventare mare, non c’è scelta. È così assurda la speranza di rinascere attraverso la musica (e il teatro) dalle proprie ceneri di sofferenza?

Probabilmente per Lady Day il Mississippi non è diventato un mare grande abbastanza da contenere generazioni di disperati amori e di oltraggi subiti, né il jazz ha potuto guarire ferite così profonde. Ma noi non abbiamo scelta. La storia di Billie Holiday – per come ce la racconta Alessandra Caputo – può solo insegnarci a far diventare mare il rigagnolo nel quale sguazziamo insoddisfatti. L’arte forse serve a questo, e questo teatro visionario ne è una sofferta prova.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Trastevere
Via Jacopa de Settesoli 3, 00153 Roma
dal 7 all’11 marzo 2018, ore 21

Lady Holiday Mississippi Drunk
di Alessandra Caputo (con una ballata di Adriano Marenco)
regia Simone Fraschetti e Alessandra Caputo
con Valentina Conti e Rodolfo V. Puccio
musiche di Rodolfo V. Puccio
produzione Patas Arriba Teatro