Dialoghi del cuscino

Già è stato scritto, di questo tanto caro Macbettu, che non tiene più il conto dei riconoscimenti presi, delle tappe mondiali e delle repliche: Premio Ubu del 2017, ANCT 2017, MESS Awards, Sud America, Francia, Finlandia, eccetera eccetera eccetera. Diremo che, trainato dalla regia di Alessandro Serra, ha annoverato Siena tra le sue fermate, calcando le assi del Teatro dei Rinnovati tra il 6 e l’8 dicembre – ancora una volta efficace, nuovamente applausi e applausi e applausi.

Cerchiamo di andare a fondo. Armiamoci di coltello e affondiamolo nello stomaco di quest’opera, come si fa nel folklore di quella Sardegna che si posa così bene sulla lama del Thane di Cawdor; quella Sardegna la cui riscoperta va anche a merito di Dolores Turchi, saggista che dall’inizio degli anni Novanta ha focalizzato i propri studi su queste antiche tradizioni.
Perché la tradizione barbaricina? Perché afferrare il Bardo e colmare di campanacci e maschere una tra le sue tragedie più macabre?

Spostiamoci nel profondo dell’isola sarda, in quel paesaggio a lungo lasciato a se stesso, chiuso come l’antica Scozia nel suo guscio di leggende e fragore. Sappiamo che tutto il pensiero umano scaturisce da una gamma di archetipi, e che tali archetipi accomunano culture apparentemente agli antipodi. I Greci ebbero il loro bel da fare a intessere miti che legittimassero la somiglianza dei loro dei con quelli di popolazioni più antiche. È questo il caso di Io, amata da Zeus, trasfigurata in vacca e fuggita in Egitto, a giustificazione del culto di Hathor; o di Eurinome, che in ogni antica cultura (s)veste i panni della Dea Madre. E soprattutto, è il caso di Dioniso. C’è sempre un Dioniso, o meglio, c’è sempre chi ne fa le veci. Non è un caso che la mitologia lo spedisca in viaggio ai quattro angoli del mondo, a ispirare i popoli del deserto e a fondare città in terra indiana.

Dai dervisci rotanti alla danza di Kalì, dai misteri eleusini ai nostri tarantati salentini, i rituali del dio dai mille epiteti, o meglio la comprensione di una dimensione a lui correlata, precorre in tutti i popoli. Un’essenza ambigua, esplicitata dall’ermafroditismo e dalla commistione di sesso e violenza, nascita e morte, sangue e vino.

Relegata dalla propria condizione di isola, quasi sottratta all’identità italiana, la Sardegna ha custodito negli anni la propria fedeltà alla tradizione campestre, a rituali antichi, desemantizzati dalla volontà della Chiesa di renderli inoffensivi sul piano religioso, che però mantengono intatta la propria qualità estetica.
Ma quanta terminologia. Definiamola un po’, questa estetica.
Esistono tante significazioni per un concetto così volatile: la facoltà umana di rispondere a uno stimolo sensibile; saper valutare la forma indipendentemente dalla sua funzione. E poi c’è quella che Ugo Fabietti chiama “creatività culturale”, definendola nei suoi Elementi di Antropologia Culturale come: “possibilità che gli esseri umani hanno di produrre sempre nuovi significati a partire dai modelli culturali a loro disposizione”. Vien da sé che non esiste popolo che sia privo di una propria estetica. E che tale estetica si esprime mediante la creatività. E qui entra in gioco la festa. La festa è tratto universalmente diffuso tra i popoli, oltre che vera e propria scansione del tempo – il periodo natalizio, il Ferragosto, le fiere di paese. Sovvertimento della routine quotidiana, la festa definisce una collettività e ne esprime il substrato culturale. A differenza del rito, che ha sempre un officiante di riferimento, la festa si sviluppa in autonomia nel territorio e favorisce la proliferazione di centri a sé stanti. Abbiamo così tante diverse interpretazioni di una singola festa, maschere variegate per il medesimo volto, tra le quali è divertente individuare la radice comune.
Veniamo al Carnevale barbaricino, che Serra accorda a Shakespeare, producendo quel nuovo significato che è Macbettu.

Erede di un’epoca vissuta all’ombra delle calamità naturali, la festa campestre sopravvive agli strali della Chiesa in grazia della sua distanza dalle città. L’esistenza aspra di queste comunità ruota attorno al raccolto e alla ciclicità delle stagioni. L’inverno è il più temuto – la lunga notte, la morte temporanea del creato. È di fronte alla sua ripetizione che i popoli sviluppano scongiuri, rituali, atti magici e strumentali che replichino alla paura. La permanenza di archetipi già riscontrati nella Grecia arcaica si registra in quelle figure che riportano al simbolo del capro espiatorio, bestia sacrificale a cui la comunità imputa tutte le colpe commesse nel corso dell’anno, che perirà in maniera violenta durante la festa, salvo poi rinascere per mezzo del vino, auspicando così l’imminente primavera. Nome e aspetto di questa maschera cambiano da paese a paese: Su Batiledhu di Lula, il capro per antonomasia, battuto fino alla morte come S’Urtzu di Samugheo, il cui nominativo conduce facilmente alla parola Orco, inteso come Ade, abisso, Tartaro. Inverno. Da sempre associato all’uccisione sacrale, il capro è sacro a Dioniso, come lo è il teatro: trágos, il termine greco, è all’origine di tragodìa, ossia tragedia. Lo stesso dio dell’ebbrezza è, assieme a Pan, altra divinità campestre, un nume che muore e risorge, predecessore del Cristo. E quello della morte e resurrezione è un po’ il leitmotiv che accomuna gli idoli più vicini alla natura, echeggiandone con le proprie vicende la ciclicità che la caratterizza: pensiamo più poeticamente a Proserpina/Kore, che entra e esce dall’Ade.

Il tema del sacrificio permea, come sappiamo, il Macbeth ab origine. È fin troppo scontato vincolare Duncan, il buon sovrano, alla figura cristica, o meglio a Ifigenia, la cui morte darà ausilio alle navi di Agamennone di partire per la guerra. Questo omicidio, lungi dal mondare il mondo dai peccati, sarà l’inizio della sua corruzione. E il re disteso sul pavimento, chiuso nel sonno tra i suoi uomini, rammenta bene la caduta che per Su Batiledhu è anticipazione del colpo di grazia. Come bestie da macello, le vittime di Cawdor sono associate ai maiali nella sequenza del banchetto, nutriti da una ieratica Lady Macbeth, quasi una Circe o una divinità ctonia, che conclude aspergendoli di vino, il cui richiamo al sangue è immediato. Il sangue di Su Batiledhu chiazza il terreno e ne auspica la fertilità, raccolto in uno stomaco di bue che l’interprete nasconde sotto il travestimento. L’esclusione delle donne dal Carnevale barbaricino arcaico dialoga alla perfezione coi dettami del teatro classico ed elisabettiano: la sposa del tiranno è interpretata da un uomo altissimo, incombente sullo stesso Macbettu a incarnare il proprio terribile ascendente su di lui. Il volto spesso coperto dai capelli, quasi tramutandola in idolo funerario, porta alla mente le maschere vedovili che sfilano nel Carnevale, o una versione oscura di quelle Mascaras Nettas che a Lodè passano annunciate dai campanacci e domandano vino alle donne, inseguendo ferocemente gli uomini. E il bacio di morte che pone sulle labbra di Duncan la rapporta in parte alla terrificante Filonzana di Ottana, declinazione campestre della parca Atropo e come lei munita delle forbici e del filo della vita, che taglierà in caso di mancato tributo. Tributo che, ancora una volta, torna a essere il vino/sangue. E la metafora del pasto sacrificale si ripete nel banchetto successivo, quello che non vedrà il ritorno dell’assassinato Banquo, ma del suo spettro. Qui Serra lo fa incedere sul tavolo, calpestando in lenta marcia una teoria di pane carasau, il cui scricchiolio permea il silenzio della scena con un fare di ossa spezzate. La somiglianza con l’ostia eucaristica è palese, ma non c’è spazio per il Cristo in Macbettu. Più antica è la fonte a cui questa tenebra si abbevera: si ritiene che le rappresentazioni barbaricine risalgano a circa tremila anni fa.

E c’è di più. Salta subito all’occhio, così in Shakespeare come in antichità, il voluto sbalzo di registro tra tragicità e comicità. Nel Bardo, in linea con la tradizione elisabettiana, abbiamo i consueti intermezzi che sfruttano il jolly, il giullare, come frattura e momentaneo capovolgimento della tensione. Il ruolo è assegnato alle tre streghe gobbe, gesticolanti e grottesche, assai simili nell’enfasi a sos Batiledhos Gattias, che a Lula accompagnano alla morte su Batiledhu e ne inscenano il tragicomico corteo funebre. Incappucciate e rozze, quasi una degenerazione del coro ellenico, le vedove piangono e giocano e così le streghe che in certi intermezzi, dove si affaccendano con scope e campane, paiono dialogare anche coi Thurpos di Orotelli. Queste evocazioni del villano in chiave bestiale sfilano per il corteo con cappuccio e cinta di campanacci, simulando attività lavorative o aggiogandosi a vicenda come bestiame. Il senso rimane quello, comune ai popoli primitivi, ma per vie traverse anche alla nostra società, di rappresentare se stessi e il proprio mondo al fine di ordinarlo, di armarsi di fronte all’ignoto, di sbeffeggiare la minaccia della morte e confermarla a un tempo. Lo si vede nella stessa figura del giullare, alter ego del sovrano, il cui compito implicito era rammentargli della caducità della vita e l’orgoglio umano – e Shakespeare ce lo ricorda con forza negli intermezzi del Re Lear. Non è un caso che nel Carnevale tradizionale, e non solo quello sardo, fosse d’uso eleggere il cosiddetto Re del Carnevale, quasi sempre un povero ubriaco, da osannare per l’intera festa e sbeffeggiare crudelmente alla fine. Ma simili contrasti di monito o preparazione li troviamo sparsi in ogni angolo del globo: basti pensare alla cultura azteca, che si curava del benessere della vittima prima d’immolarla, offrendole il posto d’onore al banchetto antecedente il sacrificio; o agli Agni della Costa d’Avorio, che nel lasso di tempo tra la morte di un re e l’elezione del successore ponevano sul trono uno schiavo che, contravvenendo alle proibizioni del lutto, gozzovigliava e sbeffeggiava il defunto, salvo poi essere messo a morte con l’intera famiglia al termine dell’interregno.

È questa natura apotropaica e insieme memoriale che pone la festa barbaricina sul limitare tra la vita e la morte, tra l’inverno e il ritorno della bella stagione. E non è un caso che Dioniso, il taciuto destinatario di questi riti, fosse già dai greci riconosciuto come rovescio di Apollo, metà oscura del cielo, sovvertimento della ragione e del principio ordinatore della cultura ellenica, che non conoscendo il peccato e l’inferno, individuava nel Caos il Male. La versione sarda di questo capovolgimento programmato non ha di che spartire col Carnevale standard, volto com’è alla messa in scena della morte nella sua dimensione più violenta. Non a caso “Carrasecare” – così in Sardegna è chiamata la festa – significa carne da smembrare. E il tam tam del Tristo Mietitore si ripete per l’intero svolgersi del Macbettu, battuto sul metallo, sfregato con le unghie e scampanellato dalle megere. I tavoli paiono travalicare il concetto di altare sacrificale: si ergono in verticale e illustrano forse il limite stesso tra il nostro mondo e l’Averno, scomparendo tra di essi Lady Macbeth nell’atto del togliersi la vita. E lo stesso signore di Cawdor, come in sinistro presagio, resta temporaneamente disteso come morto sul tavolo del banchetto, fattosi feretro processionale.

Dovremmo ora parlare della maschera, l’emblema di ogni rappresentazione e probabilmente la prima immagine che affiora alla mente pensando di confrontare Carnevale e teatro. La maschera che, nella festa barbaricina, gioca un ruolo fondamentale: è in virtù di quella che l’uomo confluisce nella bestia e basti pensare al Boes di Ottana, il bue sacrificale dalle corna arcuate e dall’inspiegabile disegno di foglie sugli zigomi. Questi oggetti, realizzati quasi esclusivamente in legno di pero selvatico, trovano puntuale citazione sulle battute finali del Macbettu, col bosco di Birnan che incede verso Dunsinane. E mentre sangue cade su altro sangue, mentre il piccolo trono balocco su cui siede il tiranno dà i primi segni di cedimento, i sassi s’impilano sul proscenio, uno per crudeltà commessa, via via più instabile, un nuraghe fragile poiché eretto su terreno sterile: Macbettu non ha figli, ha ammazzato invano.
Il più è stato detto, il resto lasciamolo alla pura percezione. Speculare sull’atmosfera non giova alla sua bellezza. Lasciamo che siano i sensi a confrontarsi con quella scena spoglia di fondi neri alla Caravaggio, fondi terrosi di corpi che emergono e rientrano nell’ombra, camicie lise e berretti folklorici, le grida dialettali, memori della Grecia nei termini, che leggiamo tradotte nello schermo in sovrimpressione. Quelle grida che alla lunga svaporano in musica, sovente in frastuono. Tutto va bene, non è che la vita.
Batiledhu si dibatte sino alla fine.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro dei Rinnovati

Palazzo Pubblico
Il Campo – Siena
domenica 8 dicembre 2019, ore 17.30

Macbettu
di Alessandro Serra
tratto da Macbeth di William Shakespeare
con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu e Felice Montervino
traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
musiche pietre sonore Pinuccio Sciola
composizioni pietre sonore Marcellino Garau
tecnico della luce e direzione tecnica Stefano Bardelli
tecnico della scena Giuliana Rienzi
tecnico del suono Giorgia Mascia
regia, scene, luci e costumi Alessandro Serra
produzione Sardegna Teatro/Compagnia Teatropersona
con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola e Cedac Circuito Regionale Sardegna
(lingua sardo con sovratitoli in italiano)

www.teatridisiena.it