Un politico profondamente efficace

Eutanasia, un vero e proprio tabù dei nostri giorni e tema scomodo che Quotidiana.com affronta nella sua seconda trilogia Tutto è bene quel che finisce. Il primo capitolo, L’anarchico non è fotogenico, in scena a Fuori Luogo, apre nel suo modo surreale e irriverente uno spazio alla riflessione.

Che cos’è una buona morte? La buona morte è la morte di ciò che deve o vuole morire, come il corpo esausto e stremato dalla sofferenza, che chiede di trovare riposo, che invoca la morte come una liberazione (cosa che lo accomuna, fra l’altro, al corpo torturato). La buona morte accusa la medicina, il giuramento di Ippocrate, la stessa Costituzione, rivendicando il diritto, non rispettato e tutelato, a morire. Quando la medicina fallisce il suo compito?

Se la vita è considerata solo in termini di quantità e durata, non siamo diventati anche noi stessi degli oggetti scientifici? Non abbiamo forse dimenticato le altre qualità che contraddistinguono la nostra esistenza?

E il fatto stesso che si parli di buona morte, il fatto che il corpo lotti per poter morire non contraddice in fondo la visione medico-scientifica o positivista dell’era moderna?

Morire e basta, finire, e lasciare che muoia ciò che deve morire, ciò che non ha senso sia mantenuto in vita. Immediata arriva la necessità di un chiarimento: cosa si intende con quell’“avere senso”? Cosa ha senso? Ecco il ruolo della morte: rendere urgente e imprescindibile questa domanda, la comprensione e la ricerca del che cosa valga davvero la pena. Morire comporta la ricerca dell’essenziale.

L’inquinamento materiale e spirituale in cui viviamo è causa e conseguenza della negazione della morte. Se morire comporta la ricerca dell’essenziale, implica di conseguenza l’eliminazione di tutto ciò che non lo è – e che dovrebbe essere abbandonato – per non infettare una buona esistenza. Ossia, l’inutile, il soffocante, i malanni della società, quelli della cultura e del sapere, che ci distraggono da ciò che è davvero importante.

C’è una connessione strettissima fra consapevolezza della morte, del dover morire e del saper morire, con il modo in cui si conduce l’esistenza, con le scelte che si fanno, con le prospettive che si adottano. Chi siamo noi? Possiamo definire chi siamo a seconda di come sappiamo affrontare la morte e di come ci sappiamo liberare da tutto ciò che dovrebbe morire? I due cowboy che vediamo muoversi in scena sono il richiamo a una figura mitica, come potrebbe essere quella di un guerriero: il rimando all’universo spirituale di chi sa morire, e sa anche uccidere.

La provocazione dei Quotidiana.com crea una reazione, che non è di irritazione o sdegno. Bensì l’aprire uno spazio di interazione e dialogo su un argomento tanto delicato, urgente e importante, facendo riflettere su quanto la condivisione delle idee e delle opinioni non conduca alla scoperta di nuove possibilità, a nuove occasioni per pensare, e di come il difforme (anche intellettuale, oltre che estetico) possa portare a conoscere strade nuove.

In scena, Scappin e Vannoni istigano al pensiero. Per questo il loro teatro non solo è politico ma è magistralmente politico, perché genera uno spazio aperto alla discussione e alla riflessione, senza pretendere di esporre manifesti, ideologie, visioni. Lo spettatore è autonomo.

Il lato formale della loro ricerca è probabilmente uno degli aspetti che più contribuiscono a questo effetto. La parola, che mantiene nel loro teatro un ruolo centrale, si compone però in un insieme senza senso. Come affermano gli stessi artisti, il testo è il concentrato che rimane una volta che si filtra tutto ciò che si sente dire in giro, ma trattenendo solo l’inutile, ciò che rischierebbe di cadere nel vuoto. La parola è sì essenziale dal punto di vista della forma, coincisa e ridotta al minimo, ma per quanto concerne il contenuto è un condensato dell’inutile.

Il testo è una sorta di buco nero, che crea tensioni e deformazioni dello spazio, ma che contribuisce a strutturare la rappresentazione e la particolare energia che la sostanzia. Intensa, essa aleggia sulla scena come una massa galleggiante informe, che si anima col gesto degli attori (un gesto parodico, potremmo dire) solo per brevi e intensi sussulti, per poi essere immediatamente riassorbita. Fra i due interpreti la circolazione di questa energia è palpabile e fortissima. Su una scena ridotta al minimo, si muovono le due figure indefinibili, i due improbabili cowboy, che incarnano e materializzano il desiderio di una filosofia di vita che sappia rapportarsi alla morte e che, di conseguenza, sappia anche restituire un giusto peso, senso e valore alla vita.

Sempre spiazzante, paradossale, provocatorio, surreale e sospeso. Decontaminato e decontaminante, deformato e deformante, L’anarchico non è fotogenico rompe il velo della facile opinione e della risposta scontata, obbligandoci a riflettere.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno di Fuori Luogo:
Centro Giovanile Dialma Ruggiero
via Monteverdi 117, La Spezia (SP)
venerdì 11 e sabato 12 marzo, ore 21.15

L’anarchico non è fotogenico
di e con Roberto Scappin e Paola Vannoni
produzione Quotidiana.com
con il sostegno di Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna
in collaborazione con La Corte Ospitale/progetto residenziale, Armunia/Festival Inequilibrio