Ritratti d’Autore

Cos’è che ci unisce, cos’è che ci crea. Cos’è che prima ci attrae l’uno verso l’altro e poi ci porta a respingerci, a dominarci, a desiderare di dimostrare che siamo i migliori? Domande impegnative che ci accompagnano da sempre e che non ci lasceranno fino alla morte. Abbiamo chiesto a Lara Guidetti, coreografa e danzatrice, nonché straordinaria interprete e autrice, insieme a Francesco Pacelli, dello spettacolo Modelli tagliati in carne, di darci il suo parere.

Nello spettacolo Modelli tagliati in carne così come nella vita, un filo conduttore unisce tutti noi. Di cosa è fatto, come si crea e come si evolve questo filo?
Lara Guidetti
: «Come si crea e come si evolve nella vita è, e resterà sempre un mistero. Nello spettacolo il filo è un’evoluzione naturale fatta di diversi passaggi. Dalla nascita della materia, di un embrione, di un essere unicellulare molto semplice che, poi, evolvendosi prende una forma – un’identità nel caso degli esseri umani. Cominciamo, infatti, ritrovando il nostro volto e imparando a conoscere quello degli altri. Poi c’è la fase della relazione con l’altro, questa voglia primordiale e intrinseca all’essere umano di tendere verso un qualcosa che è molto difficile raggiungere, come la conoscenza, l’infinito e così via. Iniziamo a capire che possiamo utilizzare l’altro come un trampolino, come un mezzo per arrivare in un luogo che da soli non potremmo mai raggiungere. Un rapporto utilitaristico che diventa relazione all’interno delle società e che si complica con la questione psicologica e cioè con la possibilità di influenzare, di indurre gli altri a fare qualcosa per noi senza utilizzare il contatto fisico, la violenza o la forza bensì l’intelletto. Da qui il potere che l’uomo può avere sulla donna – che è di tipo fisico perché strutturalmente l’uomo ha una potenza maggiore – e quello che una donna può avere su un uomo – che è intessuto di indifferenza, assenza, rifiuto ma che provoca lo stesso dolore».

Danza e teatro. Può spiegarci questa unione?
L.G.
«In realtà non è l’unione di due cose ma è propriamente teatro-danza, un linguaggio a parte, difficile da definire perché contiene tantissime cose. Non esiste il teatro separato dalla danza. A nostro modo, noi cerchiamo di portare avanti un tale linguaggio lavorando su tre binari diversi che crescono e si evolvono insieme, quasi contemporaneamente in sala. La drammaturgia – che vuol dire trovare la causa del movimento, la necessità che abbiamo di comunicare con il nostro corpo, il canale comunicativo della forma, prima di trovare la forma stessa, che è poi la danza (ossia il secondo binario). Infine la musica originale, come nello spettacolo Modelli tagliati in carne. In questo si sposano danza e teatro: la coreografia nasce sull’improvvisazione, data dalle provocazioni drammaturgiche. Insomma, in sala, ogni volta succede un “casino”!».

Come nasce una coreografia?
L.G.
«Per me una coreografia nasce nel momento in cui capisco e chiarisco cosa voglio dire. Per cui nasce da una necessità, da un pensiero, da un desiderio di comunicare qualcosa. E questo qualcosa può essere sollecitato da una provocazione testuale, da un’immagine, da una sensazione o magari da uno stimolo esterno generico. È l’urgenza di comunicare che decide. Quello che mi interessa è la trasformazione del corpo, lavorare su tante modalità di movimento senza individuare uno stile. Questo è il mio modo di fare danza e di usare il corpo».

Lei è anche un’insegnante. Come si trasmette la passione per la danza?
L.G.
«Non mi permetto di definirmi tale. Non sono una danzatrice accademica, né tecnica. Quello che ho fatto, e continuo a fare, all’interno delle accademie, mi piace definirlo – in modo più onesto – come esperienza di creazione comune. Sono modi di lavorare insieme, di costruire, di sperimentare».

Coreografa, danzatrice, attrice. Quali tra questi ruoli le appartiene di più e perché.
L.G.
«Sicuramente quello che mi appartiene maggiormente è la coreografa perché unisce tutto quello che sono. Nella coreografia vi è un aspetto teatrale e vi è la danza. Per trasmettere le sensazioni che hanno a che fare con il corpo è bene sapere di che cosa si sta parlando. Questo non è vero in assoluto ma nel mio modo di fare coreografia, la sensazione fisica è forte. A volte la maniera in cui trasferisco le sensazioni passa da un personaggio, da una realtà e, sicuramente, in questo la mia esperienza di attrice mi aiuta. Ma fare la coreografa è il ruolo che più mi appartiene perché mi ritrovo nel ruolo di autrice. Amo creare, collaborare in modo attivo e non solo riprodurre una posa, come spesso fanno i danzatori».

La danza moderna e contemporanea, a differenza di quella classica, non gode di una grande popolarità. Come si può darle il risalto che merita?
L.G.
«Ci sono delle ragioni storiche. La danza classica fa parte della nostra cultura, delle nostre radici, non può essere trascurata. Il disequilibrio è dovuto soprattutto alla differenza nei finanziamenti deputati all’una e all’altra, agli spazi, alla ricerca. Tutto questo si traduce nella difficoltà di fare proposte concrete e di produrre. Con i soldi che si spendono per uno spettacolo di danza classica se ne potrebbero fare trenta di danza contemporanea perché noi lavoriamo con molto poco. Anche il tempo a disposizione è importante. Nella danza contemporanea e moderna si ha una ricerca aperta, che deve rimanere tale perché questi generi possano crescere, svilupparsi e salire di livello. E proprio perché sono generi aperti, codici da scoprire, forme di contaminazione prodotte da tantissime persone che ci lavorano – a Milano come altrove – dobbiamo dare loro più spazio. La danza non è mai stata una priorità. Quello che si può e si deve fare non è cercare di migliorare il pubblico. Bisogna tentare, al contrario, di non demordere, di collaborare, di unire le forze e di essere molto concreti. Può essere difficile però solo giorno dopo giorno si costruisce un corpo forte abbastanza per danzare, solo giorno dopo giorno si stabilisce una realtà».