A metà del guado

In scena per il Festival Quartieri dell’Arte a Bagnaia, in provincia di Viterbo, L’asino di Jon Jesper Halle, per la regia di Gianluca Iumiento, ha convinto per potenza emotiva, meno per profondità concettuale e crudezza espressiva.

Raccontarsi per disvelarsi. Scoprire sé stessi per dominare la propria vita e il vortice degli accadimenti che la caratterizzano.

Purtroppo tornare a ritroso alle proprie origini per conoscersi autenticamente somiglia spesso alle strade lastricate d’oro che, dalle buone intenzioni, portano dritte all’inferno. Disseppellire la verità, ricorda Kafka, può infatti essere sinonimo di una condanna che diventa assoluta perché in essa si svela il senso tragico dell’esistenza individuale e lo stigma della necessità sociale. Allo stesso tempo, il compito di conoscenza e consapevolezza che l’essere umano si dà rimane un desiderio ineliminabile perché in grado di dare direzione al cammino e fondamento alla salvezza dall’omologazione.

Proprio questa disperata e paradossale richiesta di autenticità si pone al centro de L’asino, testo di Jon Jesper Halle, tradotto in scena dal regista Gianluca Iumento e portato all’interno del suggestivo spazio del Giardino di Ararat in occasione del festival Quartieri dell’Arte.

A urlare il proprio dolore è una anziana signora di nome Kari, la cui fuga «da una società della quale non vuol più far parte, verso una della quale non conosce ancora niente» individua le vicende umane troppo umane di una vita drammaticamente normale e dal cui stritolante cerchio sembra impossibile uscire.

Spezzare le catene a cui da sempre ci si sente legati (nel caso di Kari, un matrimonio fallito, la nascita della figlia e una carriera mai decollata) non è semplice perché il rischio è quello di inabissarsi nell’orrore della solitudine anziché riuscire a evadere dal conformismo. In questo percorso di redenzione dal «sentimento di sentirsi intrappolati nella propria vita, nel proprio passato, oppressi da una società della quale non ci si sente parte», Kari scopre di avere un complice, «il personaggio della Voce che promette di aiutare la donna a patto che lei racconti tutta la verità sulla propria storia». Mentre Kari attende seduta, con mani e piedi incatenata a una panchina, la Voce si dirige verso di lei dal cuore del Giardino di Ararat, scenografato per l’occasione con disegni infantili, che rappresentano le memorie della protagonista, fiori finti, carte da poker e una passerella a blocchi sopra la quale lei e lui saliranno in un simbolico alternarsi di figure.

La prospettiva della donna, mentre passa dal ricordare all’agire e al reagire, è segnato da momenti traumatici che, nel corpo a corpo dialogico con la Voce, prendono forma in un flusso ininterrotto di domande e risposte spezzate.

Prima Kira e la Voce si sovrappongono, poi si scambiano ruolo come in un gioco di specchi e infine si scontrano; c’è anche il controcanto di un terzo personaggio (Arianna Sannino, stranamente citata in locandina solo per le musiche), affatto secondario per il ruolo narrativo che svolge (angelo e figlia), che accompagna con voce vibrante e chitarra mordente sia i rimorsi e i rimpianti di una donna di mezza età con tante scelte sbagliate alle spalle e amici spariti, sia le aspettative e i tradimenti di una coppia viziata da irriducibili incomprensioni.

Il drammaturgo Halle anela a un audace confronto con la cultura ibseniana del paese natio, andando «contro il conformismo della massa informe che è la classe media scandinava», e prova a togliere la polvere dalle relative tematiche familiari e sociali, avanzando una «critica della claustrofobica società norvegese» che, a dar retta a quanto ascoltato, sembra ancora sorprendentemente legata a immobilismo sociale e dinamiche patriarcali.

Costruito attraverso dialoghi e rivelazioni, il testo si muove in un continuo confronto di  passato e presente e mostra tra le proprie pieghe quel complesso e articolato caleidoscopio di amore, odio e passione capace di innescare il vorticoso scambio di ruoli attorno ai due interpreti (che nelle note di regia viene attribuito alle «teorie di scrittura di Paul C. Castagno […] nel quale il linguaggio è il vero motore del testo»).

Al di là di una traduzione migliorabile (i deprecabili aggettivi maschili usati nel riferirsi a Kari, l’immancabile imperfetto al posto del condizionale) e di un indugiare sull’estetica del corpo che lascia il tempo che trova, questa donna segnata dall’impegno ecologico e dal culto dello stare in forma, dalla nostalgia per i migliori anni ormai passati e dallo «stare al gioco pur di sopravvivere», dunque da atteggiamenti di omologazione sociale, paga un certo anacronismo quando fa riferimento a usi e costumi del secolo scorso (il divertissement  della televisione, il dispositivo matrimoniale). In questo contesto di violenza, violenza che sa essere tanto bestiale quanto quieta, sorprende poi il sapersi ambientati in un paese che nell’immaginario comune rappresenta un modello di innovazione e progressismo avanti anni luce al nostro, come dimostrano tanto l’avanzata legislazione in tema di diritti civili e di famiglia, che consente a qualunque famiglia di adottare i figli, quanto il contrasto all’omofobia con una regolamentazione emanata già nel 1981 e l’efficiente stato sociale.

La scena, pur evocativa, forse avrebbe necessitato di una costruzione più minimale ed espressiva, mentre la linearità della regia mette in connessione le storie raccontate, ma non riesce a scatenarne il cortocircuito anche a causa di una recitazione complessivamente troppo nervosa e manieristica, adatta per descrivere i sentimenti e un controverso rapporto d’amore, meno per spalancare il vortice dialettico delle ossessioni e il naufragio psicoanalitico di una donna il cui passato non smette di travolgerla nel presente e la cui rigenerazione anela alla nemesi dopo l’autodistruzione.

Per questo l’esito cui giunge l’allestimento appare contrastante: capace, da un lato, di presentare il fardello emotivo caricato sulle spalle della  protagonista, ma non in grado, dall’altro, di incarnare la metafora del percorso penitenziale che l’animo umano intraprende quando si confronta  con sé stesso e guarda con sincerità anche ciò che più lo terrorizza.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival Quartieri dell’Arte
Giardini di Ararat

Bagnaia, Viterbo
20 Settembre, ore 12.00

L’asino
di Jon Jesper Halle
regia di Gianluca Iumiento
con Stefano Sabelli e Anna Paola Vellaccio
coproduzione del Festival con KHIO Oslo, Florian Metateatro e Teatri Molisani
aiuto regia, scenografia e oggetti scenici Eva Sabelli
traduzione Maria Sand
musiche dal vivo Arianna Sannino