Ritratti d’autore

In scena al Teatro Franco Parenti di Milano con Esequie Solenni, sotto la direzione di Andrée Ruth Shammah, Laura Pasetti – in veste di regista – ha portato, solo qualche settimana fa, sullo stesso palco e su quello del Teatro della Cooperativa, Sarabanda, il suo progetto multiculturale che ha riscosso grande successo di pubblico e critica. Oggi, la ritroviamo interprete sensibile e poliedrica del testo di Tarantino e sorge spontaneo chiedersi quali difficoltà incontri un’attrice nell’interpretare due ruoli tanto diversi – della Iotti e di Franca De Gasperi – in uno stesso spettacolo.

Laura Pasetti: «È stato davvero molto impegnativo, anche perché il modo in cui è strutturata la scrittura drammaturgica di Tarantino necessita di un lavoro di analisi del testo precedente e, quindi, implica che si trovino, prima, tutte le sfaccettature di un personaggio e, poi, tutte quelle dell’altro. Ovviamente, per me è più facile interpretare la Iotti perché è più vicina alla mia età. Mentre la De Gasperi ha richiesto un maggior lavoro su me stessa e sul personaggio, così da trovare uno spessore che andasse aldilà della “vecchietta” e restituisse, prima di tutto, la donna con un proprio pathos ed emozioni. Inoltre va detto che ho provato pochissimo, perché l’anno scorso – essendo questa una ripresa – ho dovuto sostituire un’altra attrice che avrebbe dovuto interpretare il mio ruolo. Quindi, è stato ancora più difficile. D’altro canto, da un testo che sembrava infattibile – con implicazioni politiche e l’ironia e il gusto di una scrittura che fa intravedere situazioni ancora attuali – Andrée Ruth Shammah è riuscita talmente bene a rendere chiara la storia – che è una storia di vita e d’amore di due donne per i loro uomini – da facilitarmi, in parte, il compito».

Ci può descrivere il testo e il rapporto tra questo e il lavoro della regista per trasformare la parola scritta in spettacolo?
L. P.: «Il testo di Tarantino è forse più attuale oggi che non al momento del debutto – a maggio – perché queste donne rivelano cose incredibili. Anche se nella realtà non si sono mai incontrate, Iotti e De Gasperi sembra che strizzino entrambe l’occhio al pubblico e al mondo della politica, raccontando cos’è veramente quel mondo: un mare di squali che sguazzano tra mille segreti. Le due donne paiono quasi accennare a ciò che noi non sappiamo ma che accade quotidianamente – e solo adesso stiamo scoprendo a causa degli scandali sempre più evidenti e che, sebbene in parte ci siano sempre stati, probabilmente, in passato rimanevano nascosti. La scrittura in sé è difficile perché salta da un punto all’altro. Di conseguenza, mantenere il filo della vicenda è complesso e, a questo, si aggiunge lo sforzo dell’attore per sostenere la psicologia del personaggio. L’escamotage trovato da Shammah di recitare davanti a un leggio – che, in realtà, è quasi un mezzo paravento il quale, in qualche modo, ci distanzia dall’interpretazione teatrale – obbliga a una recitazione innovativa: tant’è vero che Monti e io entriamo in scena e, grazie al piccolo prologo, separiamo il concetto di “attrici” da quello di “attrici che interpretano” – creando un’atmosfera in cui domina il giudizio su quanto si fa e si dice – per poi rientrare nel personaggio. Senz’altro il processo è faticoso, ma dà un respiro più ampio all’intero spettacolo e invoglia il pubblico a prestare maggiore attenzione a quanto sta accadendo, inserendo anche il punto di vista delle attrici. Al contrario, mettere in scena il testo così com’è, interpretando una la De Gasperi e una la Iotti, sarebbe stato impossibile perché il testo è astratto, una grande metafora».

Nel corso dello spettacolo lei e Ivana Monti vi scambiate di ruolo. Il pubblico percepisce delle differenze a seconda di chi interpreta il personaggio. Questo fatto è dovuto a un percorso preciso che ogni personaggio compie nel corso della storia?
L. P.: «Sicuramente esiste un percorso perché, nel racconto, la Iotti arriva dalla De Gasperi per chiederle consiglio e, a mano a mano che le due donne si confrontano, arrivano a una complicità, a un’intimità che, all’inizio, non esisteva. Abbandonano lo scudo della politica: la De Gasperi confessa che amava il marito nonostante la tradisse, mentre la Iotti si accorge che forse non amava Togliatti e vuole addirittura abbandonare il partito. Quest’anno Tarantino ha aggiunto un sottotitolo: L’amore è una cosa meravigliosa, proprio perché è l’amore che provano – o meno – che permette alle due donne di vincere le barriere dell’etichetta e di rivelarsi per ciò che sono e sentono veramente. Ciò che emerge, ed è terrificante, è l’imposizione del partito – che Iotti non accetta, mentre De Gasperi ha accettato. Aggiungo che anche la storia del “figlio della colpa” è solo una metafora autorale: Franca De Gasperi lo accetta e, attraverso la dedizione per questo bambino, riesce a superare le difficoltà. Iotti invece si ribella e scappa – sempre metaforicamente – con l’uomo che ama».

Meglio interpretare Leona o Franca?
L. P.: «Decisamente mi sento più Leona, sia per età che per scelte di vita. Però devo dire che Franca è stata una bella sfida, perché il fatto di interpretare un personaggio che ha settantatré anni quando ne hai quaranta ti permette di provare un certo distacco che, forse, fa emergere delle sfumature che – se fossi completamente coinvolta – non risulterebbero. Si affronta il personaggio cercandone lo spessore con un’obiettività e una lucidità diverse. Questo distacco permette anche delle intuizioni. Però è chiaro che, di cuore e di pancia, Iotti – in questo testo – è la più “giusta” per me».

All’inizio di Stagione l’abbiamo vista nei panni di regista di Sarabanda. È stata la sua prima esperienza nel ruolo?
L. P.: «In Italia direi di sì. Nel senso che io ho una compagnia teatrale in Scozia che si chiama Charioteer Theatre e porto in Italia spettacoli in lingua inglese per le scuole superiori, offrendo un’alternativa al panorama esistente, creando anche un rapporto molto diretto con le insegnanti. Lo spettacolo non è mai fine a se stesso, ma sempre legato a laboratori. Del resto, io provengo dalla formazione, adoro insegnare e lo faccio per la Scuola del Piccolo. Di conseguenza, fare anche un lavoro formativo attraverso i miei spettacoli è, per me, molto interessante. La mia prima regia, del 2006, fu presentata al Festival delle Scuole di Teatro».

Come ha vissuto, quindi, questa nuova esperienza?
L. P.: «Sia per me che per gli attori quella di Sarabanda è stata un’esperienza bellissima. Loro desideravano molto fare lo spettacolo e ce l’hanno messa tutta – considerato anche che molti non sono professionisti. Mi sono accorta che la precisione – indispensabile nello spettacolo – è un concetto inteso diversamente dai cubani, dai marocchini, dagli iraniani o da noi. Di conseguenza, in ognuno è emersa la mentalità del proprio Paese d’origine e questo è stato importante. D’altronde, è chiaro che mettere insieme dodici teste e sette etnie diverse non è stato facile. Sono stati tutti molto bravi, generosi, aperti e si sono fidati di me. L’idea non era di dare una prova attorale, ma di raccontare una situazione che in Italia è sottovalutata: l’immigrazione esiste, l’integrazione anche – nel bene o nel male – e, quindi, il problema va affrontato. Il libro di Veca è stato un pretesto – tanto è vero che io l’ho ribaltato, rivisto e tagliato non essendo un testo teatrale – però è stato un ottimo pretesto: con spunti alti e poetici che lui – da filosofo e scrittore qual è – possiede naturalmente. Spero davvero che questo spettacolo sia richiesto dai festival, ripreso e portato in giro, perché è uno spettacolo che dà agli spettatori l’opportunità di porsi molte domande».

In Sarabanda l’Occidente è rappresentato attraverso immagini molto forti, ma efficaci. Ci spiega come le ha concepite?
L. P.: «Questa è stata un po’ una sfida e la domanda dalla quale siamo partiti è stata: confezioniamo uno spettacolo semplicemente come possono essercene tanti altri sull’immigrazione oppure andiamo a fondo e scopriamo come risponde l’Occidente? Purtroppo l’Occidente risponde così: la signora che va al supermercato e compra le bombe è una metafora di tutti noi, che consumiamo marche e prodotti che finanziano le guerre, sebbene molti di noi non lo sappiano. L’importante, al contrario, è essere consapevoli di quel che accade, altrimenti non si prendono mai delle posizioni. Bisogna indignarsi, reagire. Quindi, mi sono detta: coinvolgiamo anche il pubblico – e, da qui, l’idea del microfono sulla testa degli spettatori. Sentiamo i loro pensieri, dopo quaranta minuti di spettacolo. Volevo che fosse un po’ uno scossone e gli attori ci sono stati, è stato bello vederli entrare nel gioco».