I dialoghi del cuscino

Stand-up comedian funambolico che esprime il meglio del teatro popolare d’arte (da lui teorizzato) quando sale sul palcoscenico, ha un’unica pecca: definire i suoi numeri di cabaret intellettuale, lezioni.

Avevamo visto Massimiliano Civica docente/teatrante in scena, a Volterra Teatro, l’anno scorso, con I concittadini ideali. E lo ritroviamo con una lezione-spettacolo su Eduardo, quest’anno, al Festival organizzato da Teatro Akropolis a Genova, Testimonianze Ricerca azioni.
Come già sperimentato, Civica ha grandi doti comunicative, riuscendo a creare cortocircuiti empatici con le spettatrici delle prime file (uso il femminile perché quasi tutte donne); racconta, mixando con i giusti tempi teatrali informazioni e battute; diverte e incuriosisce; imita e interpreta; improvvisa mettendosi in ascolto della pancia del pubblico con vera maestria. In una parola: crea su un canovaccio erudito un one-man-show convincente. E quindi? Applausi e andiamo tutti a casa? Potremmo, ma c’è un però.
Il però nasce da quel termine: lezione. Naturalmente vi appone a fianco un altro termine che dovrebbe alleggerirne il significato, ossia spettacolo (e che non amiamo particolarmente, forse perché teatro e spettacolo ci paiono ancora, come ai tempi di Bene, due concetti collidenti). Un castigat ridendo mores dove il regista e attore non vuole certamente castigare, ma semplicemente erudire con leggerezza? E qui sorge il secondo però. Ossia, Civica passa circa dieci minuti a sincerarsi che tra il pubblico non vi siano né storici del teatro né critici teatrali. Perché? Perché gli sono state rimproverate delle piccole inesattezze da chi non comprende che lui preferisce “la bellezza alla verità” (quasi che i due termini siano opponibili o inconciliabili, mentre ingenuamente credevo, come John Keats, che: “Beauty is truth, truth beauty, – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know”, ossia che bellezza sia verità e verità bellezza). Ma questo, cosa significa? Che il pubblico è composto da una massa di ignoranti? Come spettatrice mi risento un po’, ma poi ammetto che forse Civica si sta riferendo a quel pubblico ammaestrato che non fa più paura di gucciniana memoria e resto non per cogliere l’inesattezza (non sarà una data a inficiare la qualità del discorso), bensì, semplicemente, per comprendere e conoscere qualcosa di più su Eduardo (che mi ha letteralmente accompagnata, con le sue opere teatrali, fin da bambina).
Dopo un’altra decina di minuti spesi da Civica a snocciolare alcune delle sue battute più famose (già sentite da chi abbia partecipato alla lezione di Volterra su un altro tema, ma comunque cavalli di battaglia che ogni cabarettista o stand-up comedian degno di questo nome deve avere), ecco che inizia la lezione-spettacolo.
La prima affermazione che mi suscita qualche dubbio è che il Neorealismo sia stato inventato da Eduardo (dato che Napoli milionaria è rappresentata, per la prima volta, il 15 marzo 1945; mentre Roma, città aperta esce nelle sale nel settembre dello stesso anno). Un’asserzione interessante ma che, purtroppo, non regge. Il Neorealismo è un movimento cinematografico, non teatrale, e il fatto che poi si sia allargato alla letteratura e che abbia potuto essere condiviso filosoficamente o esteticamente anche da altre arti, non inficia la paternità di Rossellini e Visconti (con I bambini ci guardano e, soprattutto, Ossessione, entrambi del ’43). E non è un fatto di date, quanto di correnti, caposcuola, movimenti. Eduardo rimase, all’interno di un certo teatro all’italiana degli anni 40 e anche dei successivi, in certo senso un unicum. Tanto pirandelliano (nell’accezione positiva) quanto neorealista o verista – ma, soprattutto, in quanto Maestro, se stesso. Mentre i neorealisti cinematografici operarono e si riconobbero in valori etici ed estetici comuni. Ed ecco che i però e i distinguo iniziano a moltiplicarsi e non hanno a che fare con date, più o meno imprecise, ma con i contenuti – etici ed estetici.
A questo punto Civica spiega che Eduardo lasciò Peppino a seguito di un litigio dovuto a motivazioni incerte (tutte lecitamente credibili) – anche se c’è chi afferma che fu Peppino ad abbandonare il fratello. Ma non entriamo nel merito, anche perché sono storie di famiglia – buone per aneddoti da bar. Quello che fa specie è che Civica riporti per intero una lettera di Eduardo a Peppino (a seguito di altra di Peppino a Eduardo, che non sembra sia stata conservata) nella quale Eduardo accusa il fratello di volere una riconciliazione senza aver superato le problematiche di base fra loro, e senza che il fratello abbia ammesso i propri torti. E Civica appoggia aprioristicamente la posizione di Eduardo accusando sottilmente Peppino di volere una riconciliazione solo perché, nel frattempo, il fratello avrebbe ottenuto un enorme successo grazie a tre capolavori – ossia Napoli milionaria, Questi fantasmi! e Filumena marturano, messi in scena tra il ’45 e il ‘46. Eppure, Carmelo Bene (che fu amico di entrambi) così li descriveva a Giancarlo Dotto: “Eduardo era cattivo nella vita, Peppino in scena”. E racconta della riconciliazione sul letto di morte di Peppino, dicendo che Eduardo lo convocò per chiedergli un consiglio: «I giornali hanno scritto che ho abbracciato Peppino e mi sono rappacificato con lui. Quante chances ho di vincere, Carmelo, se li querelo?» «Dov’è lo sfregio all’immagine?», s’informò Bene. Ed Eduardo rispose: «Quello era tutto giallo… mi sono fermato sulla soglia un attimo, non mi sono mai sognato di varcarla… teneva un colore brutto assai… Come si permettono questi di scrivere che l’ho abbracciato…?». Denotando, in questo (e ci spiace ammetterlo), non tanto mancanza di dolore fraterno, quanto di pietas tout-court.
Ma proseguiamo perché, come detto, non si tratta di date, si tratta di contenuti rilevanti al discorso.
A questo punto Civica racconta anche altre spigolosità del carattere del Maestro che, secondo lui, fu l’unico a poter essere identificato con il semplice nome (la sua Compagnia, in quel periodo, era Il teatro di Eduardo), dimenticando che anche Peppino poteva rivendicare lo stesso blasone – basti pensare a titoli cinematografici come Totò, Peppino e la malafemmina o Toto, Peppino e le fanatiche. Quisquilie, direte voi. E avete ragione, ma fastidiose se di lezione stiamo parlando.
Il punto successivo, affrontato con ammirevole leggerezza, è la figura di Eduardo capocomico – in questa parte gli aneddoti si moltiplicano e riescono a ricostruire un mondo di fronte ai nostri occhi con l’ausilio delle sole parole. Secondo Civica, però, Eduardo avrebbe licenziato Regina Bianchi perché lei, ragazza madre (di un generico bambino), non riusciva a sopravvivere con la magra paga che le passava il capocomico e chiese, per interposta persona, un aumento. Quando avvenne tutto ciò? La Bianchi quando era giovane madre single di due figlie avute con il marito di Anna Magnani (non esisteva ancora il divorzio, in Italia), lavorava con la Compagnia dei tre De Filippo (eh sì, c’era anche una donna identificabile solamente dal nome: Titina). Dopo il litigio dei fratelli, rimase per un paio d’anni con Peppino; e infine, decise volontariamente di allontanarsi per 14 anni dalle scene per dedicarsi solamente al ruolo di madre. Ci si domanda, quindi, quando avvenne questo licenziamento. Quando ritornò sulle scene e le sue figlie erano ormai in età da marito? Ma non è nemmeno questo il punto. Quanto il fatto che Civica giustifichi questa azione di Eduardo, capocomico di una Compagnia privata, in quanto avrebbe corso il rischio d’impresa e, quindi, che la sua fosse una scelta giusta o giustificabile (l’attrice brava ma “esosa” poteva, come ogni altro lavoratore, essere rimpiazzata). Confindustria ringrazia. Il Jobs Act non è niente al confronto. E ci chiediamo come potremmo noi, poveri lavoratori, anche solo chiedere uno stipendio a un imprenditore che, in quanto gravato dal rischio d’impresa già ampiamente compensato dal plus-valore (dato che gli operai Fiat non mi pare viaggino con le Ferrari dei loro manager), dovrebbe non solamente essere libero di licenziarci a piacimento ma perfino di legarci alla catena – perché la cruna dell’ago (altro tema di discussione amato da Civica per la sottigliezza gomena/cammello), in fondo, li riguarderà solo all’altro mondo.
E qui Civica fa una boutade, aggiungendo che oggi, al contrario, tutti i teatri sono finanziati con i Fondi pubblici e che, quindi, il problema non sussiste oltre. Ci sentiamo rassicurati almeno per il lavoratore teatrale? A questo riguardo vorremmo sapere cosa ne pensano il Tertulliano o il Teatro i di Milano, che hanno rischiato recentemente la chiusura. O Dario Marconcini e Giovanna Daddi, che riescono a far sopravvivere il loro Francesco di Bartolo, a Buti, solo grazie alla generosità degli artisti che ospitano. O ancora, le tante Compagnie e i troppi artisti senza teatro, spazi, servizi, mezzi, riconoscimento, e che continuano a credere nel rischio culturale – sebbene l’attuale sistema di finanziamento pubblico privilegi la produzione bulimica e non necessaria, lo spreco, il mastodontico, in nome televisivo, il già visto che non disturba né suscita dubbi, e lo spettacolo da botteghino.
Ma forse abbiamo capito male. Anzi, sicuramente.
Caro lettore, so che a questa ennesima obiezione penserai che stia diventando pedante ma, come Civica, ti chiedo ancora cinque minuti per gli ultimi due dubbi che mi hanno assalito (oppure torna e surfare sul web e riprendi la lettura in un secondo momento: anche questa è la libertà – sempre più ostracizzata – della rete).
Civica, a un certo punto, plaude al grand’attore, quello ottocentesco in particolare. Cielo, come mi batte il cuore (e qui immaginatemi con la mano sul cuore, espressione di gesto significante: vi amo tutti!). Ma davvero il grand’attore all’italiana aveva un quid in più? La grande conquista del teatro del Novecento è stata il primato della regia. E ancora, la teorizzazione; il confronto e lo svisceramento del testo; la comune attorale dove tutti e ognuno portano il proprio contributo; lo svincolamento della recitazione dai cliché e il riconoscimento di modi diversi di essere attori. Si vuole davvero tornare al ruolo stereotipato, manipolatore ed egocentrico del grand’attore e del successivo mattatore? Si pretende sul palco un neo Vittorio Gassman in calzamaglia (o un Laurence Olivier biondo) che interroga il teschio? A me, al contrario, capita di pensare che a volte Rai 5 stia facendo un pessimo servizio sia al teatro che a Shakespeare, mentre mi ammorbo sonnecchiando. Sicuramente c’è stato un fraintendimento, l’accento voleva probabilmente porsi sulla capacità dei buoni mestieranti di cavarsela in ogni situazione (e ricordo un Paolo Poli che, di fronte al crollo di un sipario firmato da Emanuele Luzzati, rubò la battuta al compagno di scena e gli disse qualcosa che suonava come: «A questo punto dovrei ammirare il mare, ma è caduto il sipario, passiamo alla battuta successiva», suscitando un caloroso applauso e l’unanime risata della platea).
Ed ecco l’ultimo punto, proprio quando pensavo di averli terminati.
L’affermazione di Civica è sul fatto che Eduardo fosse un bravo attore perché di lui si diceva: «Chistu è chillo», come per Mastroianni o Vittorio Gassman. Ora che Eduardo sia stato un eccellente (e non usiamo grande per non confondere le acque) attore, non c’è dubbio. Il dubbio è sul paragone. Se chistu è chillo significa che l’attore entra completamente nel personaggio, interpretandolo con realismo, il paragone con Marcello Mastroianni regge sicuramente (basti ricordarlo sensibile e sofferto protagonista di Una giornata particolare di Scola – un Gabriele tutto in sottraendo; o del Ferdinando Cefalù, eccessivo e grottesco, in Divorzio all’italiana di Pietro Germi). Ma non con Vittorio Gassman, mattatore sempre uguale a se stesso sia in groppa al destriero di Brancaleone che al volante della Lancia Aurelia (ne Il sorpasso). Se al contrario chistu è chillo significa che, dietro ogni maschera, si può sempre ravvisare Eduardo, il ragionamento varrebbe ma al contrario. Senza tenere conto che se proprio si volesse citare il miglior attore cinematografico italiano, forse l’esempio dovrebbe essere un altro – ossia Gian Maria Volonté, scomodo persino da morto, l’unico a poter interpretare lo stesso personaggio, ossia Aldo Moro, sia con i toni grotteschi e surreali di Todo Modo che con quelli umanamente dolenti de Il caso Moro. Ma questo, se il significato della frase corrisponde alla prima ipotesi, ovviamente.
Ecco. I peli di lana caprina sono finiti, il cappotto è stato spazzolato a dovere e possiamo lasciare il teatro con un’ultima risata che Civica regala con la gag del fratello e della madre malata. I però, purtroppo, non riguardano date inesatte, ma ragionamenti etici ed estetici che lasciano dubbi non risolvibili con un semplice click su Wikipedia.

Foto di Francesco Tassara

Le performance sono andate in scena:
nell’ambito di Volterra Teatro 2016

giovedì 28 luglio, ore 17.00
Teatro Persio Flacco
Via dei Sarti, 37 – Volterra (PI)

Massimiliano Civica presenta
I concittadini ideali

nell’ambito del Festival Testimonianze Ricerca Azioni 2017
venerdì 14 aprile, ore 21.00
Teatro Akropolis
Via Mario Boeddu, 10 – Genova

Massimiliano Civica presenta
Parole imbrogliate
Lezione-spettacolo su Eduardo De Filippo