Che fine ha fatto l’Oratore?

Recensione Le sedie. La farsa tragica di Ionesco andata in scena al Vascello non ha perso il suo smalto, nonostante i settant’anni suonati. Valerio Binasco, dopo averci regalato una formidabile trasposizione de La lezione, si cimenta di nuovo col drammaturgo franco-romeno, portando avanti un’operazione raffinata e persuasiva, anche se un po’ troppo rassicurante. L’assurdo si diffonde sul palcoscenico come una brezza leggera, arrivando perfino a sedersi accanto a noi.

In una pagina di quel diario senza date che è il Journal en miettes (1967), Ionesco scrive: “Il perché supera tutto. Niente supera il perché, in quanto il niente non è una spiegazione; di fronte al silenzio, nel silenzio esplode la domanda senza risposta”. E poco oltre, dichiara, lasciando sgomento il lettore: “questo grande perché è come una luce che cancella tutto, luce accecante, però: non si riconosce più niente, più niente è da riconoscere”.

Mentre assistiamo a Le sedie avvertiamo la sottile disperazione di chi si sta avvicinando – progressivamente, ma irreparabilmente – a quella luce accecante, quel punto zero dove verità e menzogna si confondono fino ad annullarsi. Il palcoscenico è ancora vuoto. Sappiamo dal copione che in qualche modo lo resterà anche dopo.

Da un lato, un’improbabile montagna di sedie ammassate l’una sull’altra al punto che verrebbe da chiedersi come faccia a stare in equilibrio. Al centro, le sedie dove prenderanno posto i due protagonisti senza nome: lui ha a lungo ricoperto l’insulso ruolo di maresciallo d’alloggio, mentre lei è la sua anziana e ambiziosa moglie. Il rumore delle onde e il garrito dei gabbiani lasciano indovinare la presenza del mare; in lontananza, si ode il fruscio delle imbarcazioni che annuncia l’arrivo di altre persone. Le pareti scrostate e sudicie, il pavimento sconnesso, in fondo una finestra esageratamente grande. Quando il Vecchio e la Vecchia entrano in scena e cominciano a parlare, smozzicando battute incoerenti e scambiandosi bizzarre associazioni di idee, sappiamo di dover rinunciare ai canoni del teatro naturalistico, lasciandoci catturare dalla rete dell’assurdo.

Tale consapevolezza si tramuta in palese incredulità non appena numerosi personaggi invisibili suonano alla porta e fanno ingresso in quell’implausibile salotto, accolti con salamelecchi e parole di circostanza dai padroni di casa, che li fanno accomodare sulle sedie via via prelevate dal mucchio. Il crollo (della catasta o nostro?) si fa sempre più imminente. Nelle vesti stracciate e clownesche del Vecchio e della Vecchia, Michele di Mauro e Federica Fracassi si muovono con impeccabile maestria e comprovato talento: immersi in un delirio linguistico a due, sospingono le esistenze dei propri personaggi verso l’apocalisse del senso, suscitando talvolta dei moti di ilarità. Dopo avere trascorso l’ultima serata della loro vita in compagnia dei loro invitati immaginari, si gettano dalla finestra tenendosi per mano.

La regia di Valerio Binasco è attenta al testo, energica nelle soluzioni adottate e sicuramente in grado di supportare la rivoluzione cui invece è stato sottoposto l’impianto scenografico. Rispetto alle puntigliose didascalie contenute nell’originale, aspetto nient’affatto trascurabile di ogni lavoro ioneschiano, numerose sono state le semplificazioni, non sempre felici. Nicolas Bovey, espertissimo nell’orchestrare il gioco delle luci e soprattutto delle penombre, sostiene l’intelligibilità della tragicommedia, ma riduce all’essenziale l’architettura scenica, seguendo probabilmente l’assunto che less is more.

Meno porte e finestre, niente lampada a gas che pende dal soffitto, niente pedana e lavagna. Ciò è senz’altro dovuto all’eliminazione della parte finale prevista dal copione, che corrisponde a una precisa scelta drammaturgica: che fine hanno fatto Sua Maestà l’Imperatore, personaggio invisibile, enfaticamente acclamato dagli ospiti con coriandoli e stelle filanti al suo arrivo, e soprattutto l’Oratore, personaggio visibile, da tutti atteso per riferire all’Umanità il pensiero del Vecchio? Il discorso con cui avrebbe dovuto “far conoscere all’Universo la filosofia” del Vecchio segue il suicidio dei protagonisti e costituisce la vera – astrusa – conclusione de Le sedie. Essendo sordo e muto, egli avrebbe cercato di farsi comprendere dalla folla invisibile con gesti, gemiti e rantoli, ricorrendo al gesso per scrivere sulla lavagna una filza di lettere senza senso e utilizzando persino altri caratteri alfabetici. L’Oratore, nel testo originario, indica quanto ha scritto, aspettandosi una reazione da parte del pubblico, che però è costituito da una teoria di sedie vuote. La finale messa in scena dell’adulazione del Potente, il vittimismo del Vecchio, temperato dalle abnormi attestazioni di stima della moglie, il bruciante desiderio di ricevere un po’ di considerazione da parte di chi conta, sono solo il contraltare della presunzione del Vecchio di poter salvare l’umanità: dietro alla derelizione si nasconde un furore maniacale, dietro alla sua remissività un enorme risentimento. Forse il Vecchio non vuole parlare perché teme di non essere abbastanza persuasivo. Per questo, delega l’Oratore a farlo, ma la Retorica – dai tempi dei sofisti e di Platone – intrattiene un rapporto difficile, se non impossibile, con la Verità: dire tutto e il suo contrario equivale a non dire niente (di vero).  Se Le sedie di Binasco avesse trovato conclusione lì dove avrebbe dovuto, non ci saremmo sentiti sollevati alla fine dello spettacolo, ma ancora più oppressi dall’anomalia della realtà (quale realtà, poi?), come quando non sappiamo se siamo svegli, se stiamo ancora dormendo o che cosa abbiamo appena sognato.

Nel diario citato all’inizio, Ionesco riferisce di avere sognato che avrebbe ricevuto la risposta a tutte le sue domande soltanto in sogno. E prosegue: “Quindi, in sogno, mi addormento e sogno che faccio il sogno assoluto. Al risveglio, cioè al vero risveglio, ricordo di aver sognato che ho sognato, ma ho dimenticato completamente il sogno fatto nel sogno, il sogno della verità assoluta, il sogno che spiega tutto”. Forse il contenuto del messaggio che il Vecchio ha consegnato all’Oratore sarebbe stato intollerabile. Per lui, come per tutti noi.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini 78, Roma

Le sedie
di Eugène Ionesco, traduzioneGian Renzo Morteo
con Michele Di Mauro e Federica Fracassi
regia Valerio Binasco
assistente regia Giordana Faggiano
scene e luci Nicolas Bovey
assistente scene Nathalie Deana
costumi Alessio Rosati
musiche Paolo Spaccamonti
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale