Dei rapporti filiali e del sangue

Tornano a Roma i Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa con Lear, schiavo d’amore, un omaggio non del tutto riuscito al Bardo di Stratford-upon-Avon.

Dramma oltraggioso nel superare i limiti imposti dalla morale naturale, il Re Lear è forse il più controverso tra i testi shakespeariani e tra i più difficili da inscenare. A caratterizzarlo, nella sua accezione più comune (non per questo meno corretta), è una concezione sorprendente dell’amore e della sua escatologia. Parafrasando in termini drammaturgici un celebre verso di Auden, Shakespeare ci ricorda che «non possiamo scegliere chi siamo liberi di amare» e, così facendo, lascia intuire come ad animare la tragedia non sia un banale parallelismo tra innocenza (Lear ed Edgar) e colpa (Goneril, Regan). Fulcro di Re Lear è infatti il riferimento a un sentimento inteso quale insanabile dissidio, dilaniante contrasto che letteralmente consuma e si consuma in chi vive una relazione (tra Lear e Cordelia e tra Edgar e Gloucester).

Nonostante a circondare Lear sia una semplice e manichea distinzione di personaggi moralmente positivi (da cui è amato: Cordelia, il Matto, il duca di Albany, il conte di Kent, Gloucester e Edgar) e negativi (che lo detestano o lo temono: Goneril, Regan, il duca di Cornovaglia e Oswald), la sua morte, così come quella di Gloucester, giungerà (e non a caso) quasi più per gioia che per dolore. Amare o essere amati, in questa tragedia, non porterà ad alcuna catarsi e men che mai fornirà alcuno strumento di elevazione o di salvezza. Anzi, sarà proprio l’amore la causa, l’origine e il compimento di ogni problema. Sarà proprio in nome dell’amore, o della sua negazione, che tanto i protagonisti, quanto gli antagonisti cadranno sconfitti, destinati alla morte o al fallimento delle proprie più intime e importanti aspirazioni.

In questa prospettiva, la restituzione di ogni figura de Lear, schiavo d’amore di Marco Isidori eccede correttamente la propria essenza nel senso che ogni personaggio – eccetto Edmund, il machiavellico erede dell’astuto Iago – ama o odia con letale esagerazione. E tutti concorrono dal punto di vista drammaturgico alla composizione di quella sottile qualità metateatrale con cui già il Bardo mise in crisi la categoria costitutiva della tragedia classica, ossia il (mancato) passaggio dalla catastrofe alla catarsi

Dunque, accanto all’eccesso con cui viene teatralizzato, l’amore porta con sé anche un costante ribaltamento rispetto al senso comune, ossia l’offesa dell’assoluta permeabilità dell’anima al dolore e la totale negazione del valore universale del suo statuto familiare, del suo valore personale e di quello sociale. Se – fuori da ogni ipocrita mitigazione – nessuna redenzione o rigenerazione potrà essere determinata dall’atto di amare, ciò avviene perché esso coincide strutturalmente con il dolore.

E proprio perché i tormenti di Lear toccano al cuore i conflitti generazionali esperibili – direttamente o indirettamente – da ogni essere umano che il suo dolore potrà essere condiviso e il suo fallimento compreso.

Confrontandosi con questo drammatico impianto morale ed estetico, in cui la dimostrazione di un troppo amore (o di un troppo odio) affoga nella mancanza di misura che anticipa la disastrosa caduta nella follia del suo protagonista, i Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa decidono di riscrivere il Re Lear sotto forma di una tragedia del grottesco. Attraverso un continuo gioco con il nonsense e un totale annullamento dell’individualità attorale nel personaggio, Marco Isidori realizza un compiuto e alienante straniamento impersonale, mentre la scenografia irregolare di Daniela Dal Cin, ricordando le fantastiche creazioni di Miyazaki, costituisce un labirinto in cui gli attori e le attrici compaiono e scompaiono quasi per incanto.

Essenzializzata in un continuo riferimento verbale e visivo al lato assurdo della realtà, per esempio dai costumi infantili alla tempesta di frasi sconclusionate con cui i personaggi, dispostisi frontalmente al pubblico e con Lear alle spalle, ne manifestano l’avvenuta alterazione della mente, la revisione grottesca della tragedia e il conseguente effetto di straniamento, pur ostacolando consapevolmente l’effetto catartico della messa in scena e provocando il rifiuto di ogni possibile immedesimazione, riescono solo parzialmente a realizzare l’ambizione di una rappresentazione che intendeva esaltare «la dimensione epica del racconto del Bardo» (note di regia).

Con il mondo che fa da scena alla vicende del vecchio Re Lear e delle sue tre figlie che diventa una realtà estranea e aliena, quando in realtà vorrebbe essere remota solo in apparenza (essendo estremamente vicina perché vicenda familiare), il dramma dei personaggi degrada improvvisamente in funzione di coordinate grottesche inintelligibili.

Nonostante la tenuta attorale, al netto di pause individuali e alcune disomogeneità, sia stata complessivamente di alto livello, Lear, schiavo d’amore risulta di troppa complessa decifrazione anche per uno spettatore attento e preparato. I manierismi barocchi del linguaggio, pur capaci di tratteggiare momenti di lirismo e ironia e di muoversi tra istrionici giochi verbali, elucubrazioni filosofiche, totale follia e sarcastiche scurrilità, hanno pagato una continua ricerca dell’assurdo, mentre l’eccellente lavoro sul corpo degli interpreti (ognuno dei quali pulsa ritmicamente in relazione all’altro e, tutti insieme, come un solo organismo), al netto di una regia puntualissima nel sincronizzarne i movimenti, ha sofferto la strutturale sottomissione al pesante livello testuale della pièce.

L’individuazione dell’amore quale elemento di naufragio di un’anima sincera – dispiegato in un autentico e impressionante forcing di parole ininterrotte di oltre un’ora – non è bastato a sostenere la declinazione di un allestimento più farsesco che grottesco e che ha finito per disperdere la connotazione di un amore che, in questo Lear, voleva essere tutto: carne, sangue, mente e nervi.

Lear, schiavo d’amore è allora un’esperienza teatrale, la cui imponente esecuzione non può lasciare indifferenti, anche per la sapiente capacità metamorfica di interpreti i cui semplici cambi d’abito corrispondono a coerenti mutamenti di natura, ma che perplime per una costruzione apparsa intellettualistica e contraddittoria rispetto alle proprie premesse di ricerca di una rappresentazione contemporanea in grado di decostruire gli «allettamenti del cuore […] senza temere catastrofi semantiche».

Lo spettacolo continua
Teatro Vascello
via Giacinto Carini, 78
dall’11 al 16 dicembre 2018
dal martedì al sabato ore 21
domenica ore 18

Lear, schiavo d’amore
una riscrittura di Marco Isidori del Re Lear di William Shakespeare
con Maria Luisa Abate (Gonerilla, Gloucester), Paolo Oricco (Edmondo, Edgardo/Tom), Batty La Val (Regana, Matto), Francesca Rolli (Cordelia), Vittorio Berger (Albany/Cornovaglia), Eduardo Botto (Kent), Nevena Vujic (Jolly), l’Isi (Lear)
assistente alla regia Marzia Scarteddu
tecniche Sabina Abate, Fabio Bonfanti, Loris Spanu
luci Francesco Dell’Elba
scene e costumi Daniela Dal Cin
regia Marco Isidori
Coproduzione Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Fondazione del Teatro Stabile di Torino
con il sostegno della Città di Torino