Ascesa e caduta della famiglia Lehman

piccolo-teatro-milano-80x80Lehman Trilogy di Stefano Massini, l’attesa  nuova regia di Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano: uno spettacolo orgogliosamente inattuale e necessario.

Il teatro per Luca Ronconi è onnivoro e può parlare di tutto, anche di economia. Ecco perché il regista ha scelto di mettere in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano, la Lehman Trilogy di Stefano Massini, giovane drammaturgo fiorentino, regalandoci uno spettacolo inaspettato, di rara intelligenza e di lucida consapevolezza.

La storia racconta (o, meglio, canta) l’ascesa e la caduta di una famiglia di ebrei askenaziti, i Lehman, attraverso tre generazioni.

Inizia nel 1844 quando il capostipite Henry (la testa) sbarca a New York dalla Baviera e si trasferisce in Alabama, dove mette su un negozietto alla buona, raggiunto ben presto dai fratelli Emanuel (il braccio) e Mayer (la patata).È il sogno americano: i tre Lehman, prima commercianti, poi imprenditori, e infine banchieri, trasformano in oro tutto quello che toccano. Anche le nuove generazioni attraversano vittoriose il XX secolo, superando abilmente la crisi del ’29, ma non sopravvivono alla finanza creativa, che li porterà al fallimento nel 2008.

La Lehman Trilogy è una sorta di “archeologia” della crisi economica in cui ci troviamo. Non dà risposte, ma pone delle domande: cos’è andato storto, quale peccato originale è stato commesso? La prospettiva da cui si guarda è quella della fine, l’attenzione è, però, principalmente concentrata sulle origini e sugli sviluppi.

Il poemetto in versi di Stefano Massini, pubblicato da Einaudi, è articolato in tre parti (Ronconi lo divide in due grandi sequenze, che possono essere viste separatamente o in un’unica soluzione), presenta pochi dialoghi e non è ripartito in battute. Appartiene al genere dei testi impossibili che tentano tanto Luca Ronconi, proprio per le modalità della scrittura. Come Quer pasticciaccio brutto di via Merulana e I fratelli Karamazov, che alternavano momenti descrittivi o narrativi ai dialoghi o ai monologhi, costringe gli attori a passare continuamente dalla prima alla terza persona. Anzi, in questo caso la proposta è ancora più radicale perché il racconto e la descrizione prevalgono nettamente.

Detto questo, non stupisce che Luca Ronconi abbia deciso di metterlo scena, ma meraviglia il modo. Ci saremmo aspettati uno spettacolo monumentale, recitato nell’ampio palcoscenico dello Strehler, pieno di macchine, animato da musiche e continui cambi di luce. E invece il regista sceglie la strada opposta: il piccolo spazio del Grassi, una scena vuota e di abbacinante biancore firmata con la consueta eleganza da Marco Rossi (l’assito è, però, composto dai cartelli pubblicitari color pastello della banca), pochissimi effetti di luce, una sola musica nella seconda parte. Eliminato tutto ciò che si poteva cancellare, Ronconi si concentra sulla recitazione, disponendo di un ensemble straordinario di attori.

E ci dà un saggio davvero stupefacente di quel teatro di parola, che appartiene alla tradizione italiana più gloriosa. La tecnica adoperata è quella che ha la sua matrice nel metodo mimico di Orazio Costa (il maestro mai rinnegato) e si sviluppa nella forma più moderna (nevrotica, se vogliamo) della recitazione ronconiana: la parola che crea l’immagine, l’attenzione certosina a ogni sfumatura, lo studio del ritmo.

Attendevamo un’opera wagneriana, un Crepuscolo degli Dei in prosa, e invece ascoltiamo un quartetto d’archi.

Non solo, ma questa nuova proposta è quanto di più inattuale (in senso nietzschiano) si possa immaginare: nessuna concessione ai tempi rapidi e interrotti della comunicazione contemporanea (televisiva o virtuale che sia), un’insistenza sul piacere dell’indugio della sfumatura, la ricerca di uno specifico teatrale. Lo spettacolo diventa una vera avventura della conoscenza.

Si prenda per esempio la prima scena. Il ventiseienne Henry giunge al porto di New York alle sette e venticinque del mattino. Massimo de Francovich recita su un praticabile, mentre un orologio, che domina dall’alto, segna l’ora.  L’attore non è un giovane, ma un uomo già anziano. La scena è dunque un ricordo rivissuto, come nelle Tre sorelle del 1985 in cui una strepitosa Marisa Fabbri faceva capire allo spettatore che la storia era rivissuta dalla fine, che il tempo era passato e si poteva solamente rievocarlo. Alla stessa maniera quando Paolo Pierobon (Philip Lehman) entra in scena, la battuta ci informa che il personaggio ha sei anni, ma noi vediamo un uomo adulto con tanto di barba e pizzetto. La scena non è ridicola, come potrebbe sembrare dalla descrizione, perché l’attore non scimmiotta un bambino, ma ricorda sé da piccolo, così come non era mai ridicola Mariangela Melato in Quel che sapeva Maisie in cui interpretava il ruolo di una bambina. La morte di un personaggio non corrisponde con la sua uscita di scena. I tre fratelli Lehman e gli eredi continuano a raccontare il futuro dopo la loro scomparsa e sono sempre loro a chiudere la Lehman Trilogy, ricevendo la telefonata che sancisce il fallimento della banca. Nello spettacolo, infatti, i morti continuano a vivere in mezzo ai vivi. Ovviamente non si tratta di una bizzarria, ma di una riflessione sul tempo e sulla coesistenza nel nostro presente di vari tempi storici. Accadeva qualcosa di simile nel bellissimo Rêve d’Automne di Ion Fosse diretto da Patrice Chéreau, solo che quello che lì era esistenziale, qui è invece storico ed epico contemporaneamente.

Sulla bravura degli attori si è già detto in generale. Nello specifico vogliamo sottolineare il gioco delle mezze voci di Massimo De Francovich, che si permette pianissimi stupefacenti, ma anche di canticchiare e ballare un intero monologo; la precisione maniacale di Fabrizio Gifuni, qui al primo incontro con Ronconi (ma sembra che abbia sempre recitato sotto la sua guida); l’incredibile Massimo Popolizio, finalmente ritornato a casa dopo una lunga separazione dal maestro, in una delle prove più mature e disinvolte della sua carriera, ma anche Paolo Pierobon, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti (che ricopre ironicamente quasi tutti i ruoli femminili della storia), Fabrizio Falco (è un equilibrista che cammina su un filo tra i grattacieli di Wall Street), Martin Ilunga Chishimba e tutti gli altri.

La prima parte (Tre fratelli), nella sua austera radicalità, è la parte più riuscita ed emozionante, la seconda (Padri e figli), che comunque va assolutamente vista per capire il progetto nella sua complessità, assume un ritmo sempre più rapido, ma si sfilaccia un po’: abbiamo dialoghi più tradizionali (persino un tè ibseniano tra due dame) accanto a una maggiore varietà di generi. In questo, lo spettacolo segue il percorso del testo che man mano che si avvicina al nostro presente, accumula scene meno efficaci, forse proprio perché la maggiore vicinanza dei fatti narrati rende impossibile l’epicità.

Lo spettacolo continua
Piccolo Teatro Grassi
Via Rovello, 2, Milano
fino al 15 marzo 2015

Lehman Trilogy – Prima parte
Lehman Trilogy – Seconda parte
di Stefano Massini
regia Luca Ronconi
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci A.J.Weissbard
suono Hubert Westkemper
trucco e acconciature Aldo Signoretti
con (in ordine di apparizione)
Henry Lehman Massimo De Francovich
Emanuel Lehman Fabrizio Gifuni
Mayer Lehman Massimo Popolizio
Testatonda Deggoo Martin Ilunga Chishimba
Philip Lehman Paolo Pierobon
Solomon Paprinskij Fabrizio Falco
Davidson, Pete Peterson Raffaele Esposito
Archibald, Lewis Glucksman Denis Fasolo
Herbert Lehman Roberto Zibetti
Robert Lehman Fausto Cabra
Carrie Lauer, Ruth Lamar, Ruth Owen, Lee Anz Lynn Francesca Ciocchetti
Signora Goldman Laila Maria Fernandez
​produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa