Un pioniere della sperimentazione
Un riconoscimento che premia non solo un artista di grande originalità e talento, ma un precursore che, senza creare un modello da imitare, ha incoraggiato alla ricerca una nutrita generazione di teatranti.
La Romagna, da qualche decennio a questa parte, è diventata un crogiuolo di creatività teatrale: forse la storica, radicata presenza del festival di Santarcangelo, la contiguità con le figure di alto profilo che si sono succedute nel tempo alla sua direzione, ha creato una situazione favorevole, che ha catalizzato il nascere e lo svilupparsi di gruppi che, pur diversi nella specifica poetica, erano accomunati da un desiderio autentico di ricerca lungo strade, non sempre lineari, a volte ostiche, ma caratterizzate da un coraggioso sperimentalismo. Cito in ordine sparso, in un elenco sicuramente incompleto, le compagnie che mi vengono in mente: Masque Teatro, Motus, Le Albe, Fanny & Alexander, Valdoca, Menoventi.
Non stupisce quindi, anzi consola, che la Biennale di Venezia, da sempre attenta alle avanguardie, abbia voluto attribuire un riconoscimento prestigioso, il Leone d’Oro alla Carriera, a un personaggio che di queste realtà, è stato uno dei primi punti di riferimento, e ha assunto, negli anni, una rilevanza internazionale: Romeo Castellucci.
La Socìetas Raffaello Sanzio, da lui fondata a Cesena nel 1981 assieme alla sorella Claudia e a Chiara e Paolo Guidi, si è segnalata fin dal primo momento per una tensione al rinnovamento delle forme teatrali, sia attorali, sia drammaturgiche, con opere spesso visionarie e iconoclastiche, ove anche la riproposta di autori classici implicava l’utilizzo di video-installazioni e dell’happening: percorsi perseguiti con onestà e coerenza, non solo nell’ambito del teatro d’avanguardia, ma anche su terreni che, a uno sguardo superficiale, potrebbero apparire lontani dagli interessi del gruppo.
Mi è caro ricordare, per esempio, che nel ’97, all’interno di un protocollo d’intesa per l’educazione alle discipline dello spettacolo, firmato dai ministri Veltroni e Berlinguer (un’iniziativa integrata fra i responsabili della cultura e dell’istruzione), si faceva menzione di una sperimentazione di teatro infantile affidata alla Socìetas. Da citare poi Buchettino, rivisitazione del Pollicino di Perrault, riproposto ancora l’anno scorso al Teatro Grande di Brescia, che rimane uno dei più intelligenti e originali progetti (sarebbe riduttivo definirlo “spettacolo”) rivolti all’infanzia: assistendovi, i bambini ascoltavano sotto le coperte, ognuno in un suo lettino, la favola raccontata dalla narratrice, immersi in una complessa e fascinosa atmosfera sonora – progettata appunto da Castellucci – che riecheggiava le molteplici voci della foresta, i rumori domestici, il minaccioso risuonare dei passi.
Impossibile ripercorrere in sintesi la ricca e multiforme carriera artistica di Castellucci ma, sulla scorta dei miei ricordi personali, vorrei riportare un esempio di quel minimalismo che spesso ha connotato la sua poetica: V Crescita Santarcangelo, nel 2004. Quindici minuti in tutto: un bambino che gioca con una palla in una palestra, e una donna anziana; gesti lentissimi e rituali; poche parole reiterate («Vai a casa: devo chiudere»); fino a un fulminante, cruento finale.
Spesso, certe scelte artistiche provocatorie della Socìetas hanno suscitato polemiche, come quando, ormai diversi anni fa, un’attrice anoressica della Compagnia era morta durante una tournée. L’ultima e più violenta si è accesa per la supposta blasfemia di un lavoro (attualmente ancora in giro per il mondo, dalla Lettonia al Brasile), Sul concetto di volto nel figlio di Dio, approdato a Milano dopo alcune contestate repliche a Parigi. La canea organizzata da minoranze religiose integraliste, sostenute da gruppi politici improvvisatisi paladini dei valori cristiani, oltre alle minacce antisemite rivolte ad Andrée Ruth Shammah – rea di aver ospitato lo spettacolo al Teatro Franco Parenti – portarono il nome della Socìetas e di Romeo Castellucci agli onori della cronaca, ben al di fuori della cerchia dei cultori del teatro di ricerca. Ricordo che, per accedere al teatro, dovetti mostrare il biglietto, non alle maschere, ma a un agente di polizia in assetto antisommossa. Al di là dello sconcerto per questa situazione da coprifuoco, e delle valutazioni sullo spettacolo, la serata ebbe il merito di innescare un dibattito nutrito e di alto profilo sull’autonomia dell’arte, e anche di rinverdire le tradizioni illuministe della patria di Cesare Beccaria.
Le motivazioni del Leone d’Oro alla Carriera attribuito a Romeo di Castellucci sintetizzano gli elementi salienti della sua poetica: la molteplicità espressiva del suo linguaggio scenico, la capacità di restituire sulla scena stati onirici e incubi, il suo continuo interrogarsi sull’ambiguità della rappresentazione del reale. Ma vorrei sottolinearne una frase che, anche da un punto di vista etico, mi sembra la più importante: “Per esser rimasto scenicamente vivo dopo tutti questi anni di lavoro, continuando con la stessa freschezza con cui ha iniziato 30 anni fa. E per essere stato una grande fonte di ispirazione per le generazioni successive a cui ha regalato un magma di nuovi linguaggi scenici”.
Lumpatius Vagabundus