Di amori, di muse e dell’ebbrezza alcolica

L’Opéra di Lione ha presentato una straordinaria versione dell’opera postuma di Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann. Laurent Pelly ha concepito un decoro tanto realista quanto fantastico, in perfetto stile hoffmanniano. Un momento chiave nella programmazione operistica lionese.

Siamo nel 1851 e al teatro parigino dell’Odéon va in scena Les contes d’Hoffmann, una pièce teatrale di Paul-Jules Barbier e Michel Carré. Tra gli spettatori di una delle numerose repliche c’è un certo Jacob Offenbach, giovane compositore tedesco (che di lì a pochi anni otterrà la nazionalità francese) che si sta rapidamente affermando a Parigi. Passeranno più di vent’anni prima che Offenbach si decida a parlare con Paul-Jules Barbier (Michel Carré era purtroppo già scomparso) della sua idea di creare una grande opera che prenda ispirazione da quella pièce teatrale. Dal 1873 fino al termine della propria esistenza, il progetto principale della vita artistica del compositore franco-tedesco fu quello di realizzare la versione operistica di Les contes d’Hoffmann: un progetto ambizioso, che vedrà la propria conclusione solo dopo la morte di Offenbach, nel 1881. Gli ultimi anni della sua vita furono anni intensi, nei quali il compositore raccolse gli onori dei teatri e della stampa mondiale (da ricordare la trionfale tournée statunitense del 1876), ma l’orizzonte finalistico rimase sempre chiaro: terminare la scrittura dell’opera sui racconti di Hoffmann.

Per chiudere in bellezza il 2013, l’Opéra di Lione ha scelto di presentare una delle opere di maggior fama e prestigio del repertorio francese: Les contes d’Hoffmann, opera fantastica in cinque atti, nella realizzazione scenica di Lauren Pelly e sotto la direzione musicale alternata di Kazushi Ono e Philippe Forget. L’architettura scenica concepita da Pelly riflette la complessità della partizione musicale e della storia rappresentata: meccanismi celati che si svelano nella sorpresa generale, mise en abyme di racconti che si compenetrano e che provocano effetti e reazioni a catena, leitmotiv che scandiscono i tempi e che dipingono una continuità, il tutto mentre i frammenti delle vicende e dei personaggi acquisiscono un senso mondano che esce dai cardini della rappresentazione.

Siamo in una taverna di una città tedesca, e molto probabilmente si tratta di Norimberga, dove si innalzano i canti degli Esprits de la bière et du vin. La Musa (Angélique Noldus) dichiara la volontà di distrarre l’attenzione del grande scrittore E. T. A. Hoffmann (uno straordinario John Osborn oramai divenuto un habitué dell’Opéra) dalle proprie vicissitudini sentimentali per conquistarlo definitivamente. Ma per portare a termine questo progetto è necessario passare attraverso le sofferenze amorose e, per accompagnarlo in questo viaggio, la Musa decide di prendere le sembianze del fido compagno Nicklausse. L’atto I può finalmente iniziare e Hoffmann appare immediatamente vittima del proprio amore per Stella (Talise Trevigne), una magnifica interprete del Don Giovanni di Mozart. Il profondo e violento sentimento per la cantante viene disputato con Lindorf (un diabolico e convincente Laurent Alvaro), un consigliere municipale sotto le cui spoglie si nasconde il demonio stesso. Questa parte introduttiva mostra già i temi portanti di tutta l’opera: il doppio, la sfida tra l’amore e la letteratura, l’ebbrezza, gli spiriti maligni che tormentano l’esistenza dello scrittore. La scena non si sviluppa oltre poiché questo quadro risulta essere l’escamotage scenico per introdurre i veri racconti di Hoffmann. Lo scrittore viene allora scaraventato da Barbier, Carré e Offenbach all’interno delle proprie architetture narrative. Egli non è più semplicemente il narratore onnisciente, vale a dire colui che si occupa dell’ideazione degli scenari e dello sviluppo della storia. Il genio dei librettisti e del compositore è attestato da questo trucco fantastico che pone il narratore extradiegetico, che è cioè esterno alla storia, come facente parte in prima persona dei propri racconti. E, inevitabilmente, dei propri incubi. La diretta implicazione dello scrittore risulta essere anche l’appiglio al quale lo spettatore si ritrova legato e che lo accompagna fino al termine dello spettacolo. Il fantastico, figlio dell’immaginazione di Hoffmann, diviene la “carne” della propria esistenza, in un battito indefesso con il sentimento amoroso. Lo scrittore cade sotto lo charme della fredda Olympia (atto II) e, accecato dall’amore che prova per lei, non si rende affatto conto che si tratta di un automa, una bambola meccanica creata dall’inquietante dottor Spallanzani (Carl Ghazarossian), con l’aiuto di Coppelius, una delle incarnazioni del male. Il dramma si consuma rapidamente: Olympia viene distrutta, fatta a pezzi dallo stesso Coppelius, scaraventando così il povero Hoffmann nella tristezza e nel disincanto. Se Olympia risultava essere un automa, Antonia, il successivo amore dello scrittore (atto III), è una donna in carne e ossa, ma condannata a non cantare pena la morte. Infatti, non appena Antonia abbozza qualche aria il suo colorito cangia immediatamente: lo sforzo aggrava le condizioni di salute della giovane, erede tanto del talento canoro quanto della tubercolosi dalla madre. Per questo motivo, il padre Crespel (Peter Sidhom) e lo stesso Hoffmann pregano Antonia di dimenticare per sempre il canto, ma l’intervento del perfido dottor Miracle, un’altra incarnazione del diavolo, condanna la giovane al suo destino: la morte la prenderà a soli venti anni, in un intenso e immaginario duetto canoro con la madre.

Dopo Norimberga, Parigi e Monaco, la scena si sposta in un palazzo veneziano (atto IV) dove la bellissima Giulietta, dopo aver rubato l’ombra al povero Peter Schlemil (Christophe Gay) viene persuasa dall’ultima incarnazione del male, Dappertutto, a sottrarre il riflesso dello scrittore. Il progetto malefico si compierà alla perfezione e Hoffmann, dopo aver ucciso il malaugurato Schlemil, sarà pietrificato e costretto a eliminare la giovane Giuletta.
Dopo questa terza tragica storia d’amore, la scena ritorna nella taverna bavarese, dove Hoffmann, stremato dal fato e dalle proprie narrazioni, non vuole più saperne nulla della bellissima Stella e dell’amore in generale. Decide di regolare i conti con quelle forze che lo hanno precipitato nel dolore: il diavolo e l’amore. Ma il risultato, anche a causa dell’eccesso alcolico, non è quello sperato e Lindorf e Stella spariscono rapidamente dalla scena. Il poeta rimane allora solo sul palco, quasi mortalmente provato dalle prove che ha patito. La Musa lo accoglie tra le proprie braccia, declamando il suo amore e chiedendo quello di Hoffmann. Quest’ultimo, con un piccolo cenno, acconsente al proprio destino, permettendo al sipario di scendere tanto sulla rappresentazione, quanto sulle vite di Hoffmann e di Offenbach, sottratte in questo modo al puro aspetto mondano per proiettarsi nell’Empireo dell’arte.

Il compositore franco-tedesco sublima con la propria musica una storia tragica e complicata. Nietzsche arrivò a definire la musica di Offenbach come una « musica francese con lo spirito di Voltaire, libero, petulante, con un piccolo ghigno sardonico » (Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza), marcando la vivacità di una composizione chiara ma mai trasparente. La partizione rispetta il fantastico realismo romantico hoffmanniano, dove il maligno, l’occulto, il magnetismo permeano il mondo reale senza però disfarlo, entrano a far parte di essi in modo altamente costitutivo.

La tripla storia d’amore è l’incarnazione declinata in varie forme di una sola passione, quella per Stella, cioè l’aspetto femminile e carnale dell’arte stessa. Un accorparsi di passioni che si volgono tragicamente verso un necessario fallimento che pone l’identità tra l’arte e la vita stessa, in un orizzonte di una mortalità imminente che può essere riscattata solamente dall’opera. Una volontà che è possibile rintracciare nelle vite dello scrittore e del compositore, in una vicinanza che, come ha fatto già notare Siefried Kracauer nel suo testo Jacques Offenbach ou Le secret du Second Empire, pone Offenbach sulle stesse linee di Hoffmann: rivivere la propria vita nella vita altrui.

La rappresentazione lionese ha rispettato tutti i crismi dello spirito dell’opera, mostrando perfino la machinerie, l’aspetto macchinale di uno spettacolo che dovrebbe rimanere nascosto (come nell’atto secondo, quando l’argano che permette il movimento di Olympia emerge dal nero fino a sorvolare il pubblico). Ma questo svelamento si inserisce perfettamente nella macchina scenica che rimane realista senza essere troppo aderente alla realtà, fantastica senza divenire fantascientifica. L’Opéra di Lione non ha certamente presentato una favola di Natale per chiudere l’anno. Ma un dramma eterno costituito di artisti e di passioni, di amori e di malefici.

Opera de Lyon_Laurent Pelly_Les contes d'Hoffmann
foto: © Jean-Pierre Maurin, 2013

L’Opéra de Lyon termine l’année 2013 avec une majestueuse représentation du dernier opéra de Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann. Dans la mise en scène de Laurent Pelly et sous la direction musicale alternée de Kazushi Ono et Philippe Forget, le rêve imaginé par Paul-Jules Barbier et Michel Carré a pris forme dans un décor à la fois réaliste et fantastique, fils d’un romantisme tourmenté et vital du XIX siècle.

Lo spettacolo è andato in scena:
Opéra de Lyon
1, Place de la Comédie – Lione (Francia)
dal 14 al 30 dicembre
orari: da martedì a sabato ore 19.30, domenica ore 16.00 (lunedì chiuso)

L’Opéra de Lyon, in coproduzione con il Gran Teatre del Liceu di Barcellona e la San Francisco Opera presentano
Les contes d’Hoffmann
di Jacques Offenbach
su libretto di Paul-Jules Barbier e Michel Carré
direzione musicale Kazushi Ono/Philippe Forget
messa in scena e costumi Laurent Pelly
aiuto alla messa in scena Christian Räth
aiuto ai costumi Jean-Jacque Delmott
nuova versione del libretto a cura di Agathe Mélinand
scenografia Chantal Thomas
luci Joël Adam
video Charles Carcopino
direttore dei cori Alan Woodbridge
Orchestra e cori dell’Opéra de Lyon

con
John Osborn (Hoffmann)
Laurent Alvaro (Lindorf/Coppelius/dottor Miracle/Dappertutto)
Patrizia Ciofi/Désirée Rancatore/Talise Trevigne (Olympia/Antonia/Giulietta/Stella)
Angélique Noldus (La Musa/Nicklausse)
Cyrille Dubois (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinaccio)
Peter Sidhom (Maître Luther/Crespel)
Christophe Gay (Wolfran/Peter Schlemil)
Carl Ghazarossian (Nathanaël/Spallanzani)
Marie Gautrot (La madre)
http://opera-lyon.com/