Necessità e fallimento della forma familiare

L’assordante urlo di un’amore spezzato. In scena, al Teatro Studio Uno di Roma, Lettera al padre, masterpiece di Gabriele Linari tratto dai racconti di Franz Kafka.

È ormai sterminata la letteratura critica su Franz Kafka, autore tra i più importanti del XX secolo, la cui opera fu ossimorica sintesi di inquietudine e ironia, e la cui eredità è ancora lungi dall’essere del tutto esplorata.

Interprete sensibile del senso dell’arte, anima di confine tra culture (tedesca, austro-ungarica ed ebraica), Kafka rappresentò e continua ancora oggi a rappresentare un vero e proprio caso sul quale il dibattito stenta a esaurirsi, incagliato principalmente a dissertare se fu realtà o visione quella che prese forma surreale, ironica e amarissima negli scritti dell’autore praghese.

Sublimandone l’aspetto più manifesto, ossia il «conflitto nei confronti di una figura che incarna l’autorità assoluta, rappresentante di un mondo utilitaristico e pratico, ben lontano dalle aspirazioni dello scrittore» (citazioni in corsivo dallo spettacolo), Gabriele Linari utilizza cinque testi attraversati dal fil rouge del rapporto generazionale (Il cruccio del padre di famiglia, L’avvoltoio, Metamorfosi, Undici figli, Lettera al padre) per realizzare un clamoroso esempio di sincretismo drammaturgico. In esso e con esso, ad accompagnare il monologo del figlio sarà il fantasma che abita tantissima produzione kafkiana, quel padre che, presente in absentia tra le pieghe dei racconti originari, Linari – dopo aver inizialmente indugiato sulla percezione di correità del figlio rispetto alla propria infelicità («È molto probabile che se anche fossi cresciuto del tutto libero dalla tua influenza sarei comunque diventato un essere malaticcio, ansioso, titubante, inquieto») – materializza in un instabile, dunque credibile, equilibrio tra l’essere forza ostile e il palesare un archetipo edipico.

Invettiva a un genitore autoritario e ingombrante (che mai ricevette la missiva), confessione a cuore aperto a una figura (quella genitoriale) cui pure guardava con ammirazione, confronto generazionale in un mondo appena uscito dalla Grande Guerra e prossimo alle macerie della Seconda, la Lettera, scritta nel 1919, condensa sentimenti e volontà polivalenti e indugia su una inadeguatezza che l’autore subì a livello tanto fisico («Io magro, debole, sottile, tu forte, alto, imponente […] tu eri per me la misura di tutte le cose») e psicologico («Quella punizione mi fece sì tornare obbediente, ma ne portai un danno interiore. […] Avrei avuto bisogno di qualche incoraggiamento, un po’ di gentilezza che mi facilitasse il cammino»), quanto culturale («tutte le idee apparentemente sottratte alla tua dipendenza erano fin da principio gravate dal tuo giudizio negativo») e ideale («delusione che tu infliggevi al bambino sempre e per principio […] erano ancora più forti giacché provenivano da te, l’autorità suprema»).

Per il figlio, la distanza parentale fu talmente estrema da giungere all’impossibilità di essere marito come lo era stato il padre. Difatti, pur attratto dal matrimonio e dalla possibilità di colmare finalmente la tara della propria solitudine, Kafka rifuggì da una strada (il matrimonio) che riteneva naturale («Sposarsi, fondare una famiglia, […] è il traguardo più alto, ne sono convinto, cui può arrivare un uomo») perché di essa percepiva il peso di «una meta che tu hai raggiunto, e quindi saremmo alla pari, […] una meta troppo alta, così in alto non si può arrivare». Ancora una volta, fu l’ammirazione per contrarietà nei confronti del genitore a costituire per il figlio motivo di frustrazione, motore di piccole incomprensioni che diventano incomunicabilità, mancanza di dialogo che tramuta in freddezza e poi in indifferenza ed estraneità. A padre e figlio, e su questo l’analisi e l’eredità di Kafka non poté essere più lucida e lungimirante, venne a mancare il linguaggio («disimparai a parlare. […] Tu però hai cominciato molto presto a troncarmi la parola in bocca»), la possibilità di scambiarsi parole e, con esse, il perdono o le accuse, la disperazione o il dolore, la felicità e le gioie («Accadeva di rado, ma erano momenti meravigliosi»).

Il Kafka di Linari è un personaggio che vive con consapevolezza un rapporto da cui era stato segnato e dal quale pure avrebbe potuto imparare diversamente, un individuo che, ormai, ha perso ogni speranza di divenire finalmente «un figlio libero, riconoscente, incolpevole, sincero» con un padre «rasserenato, non dispotico, comprensivo, soddisfatto» (Lettera al padre, Franz Kafka), e che sa, di conseguenza, da che parte stare, quella di Odradek e Gregor Samsa (che «vide la madre […] correre ad implorare il padre: Risparmia Gregor! Risparmia nostro figlio»).

Attraverso una straordinaria attoralità fisica e vocale, l’adattamento esalta gran parte della complessità kafkiana, quella da cui affiora sentimentalmente l’intima profondità dell’indissolubile contrasto umano tra desiderio e volontà, tra ciò cui si ambisce spontaneamente e ciò che, invece, orienta razionalmente la relazione.

L’interpretazione di Linari è lacerante, magistrale nel restituire, attraverso le nevrosi del corpo, le gestualità delle mani e le stigmate di un volto solcato dall’impazzare di sentimenti contrastanti, il carattere frammentario e incompiuto del protagonista, il suo irrimediabile porsi sotto il segno della caducità; e sono autentiche perle di creazione artistica i momenti in cui, con il semplice uso di due ombrelli, trasforma il proprio aspetto fino ad assumere le sembianze metamorfiche di una blatta e, infine, singhiozza in un climax di struggente emotività il «modo di sorridere particolarmente bello e molto raro, un sorriso silenzioso, appagato, di approvazione, che rende felice colui al quale è diretto», quel sorriso, forse, rivoltogli dal padre quando sembrava «ancora innocente ed ero la tua grande speranza».

Colpevolizzazione e cattiva coscienza conducono Linari a disegnare un personaggio il cui tentativo di liberarsi dalla colpa non volge a dimostrare la propria innocenza, ma al semplice non sentirsi interamente responsabile, al confessare non per andare avanti, ma per trovare una, purtroppo per lui, impossibile via d’uscita; un personaggio che, allora, sta giocando una resistenza sul piano sbagliato, quello trascendente di una colpa che sovrasta e con cui non è possibile fare i conti, una resistenza, da un lato, inadeguata nel mettere in crisi la propria identificazione con l’anormalità, e, dall’altro, sconcertante nello spalancare l’apertura di un mondo opposto al padre, quello dell’arte e della scrittura, «uno spazio indipendente da te […] un congedo da te volutamente dilazionato, un congedo che avevi messo in moto tu, ma che si dipanava lungo un percorso stabilito da me», pur con la drammatica consapevolezza di «a quanto poco serviva tutto questo».

In un’epoca storica in cui le principali istituzioni educative (famiglie e scuola) vengono spesso accusate di eccessivo permissivismo, di non essere capaci di dialogare in maniera critica e negativa nei confronti delle incessanti e continue richieste giovanili, dalle rivendicazioni libertarie a quelle consumistiche, il ritorno al Kafka de Lettera al padre, offrendo uno spettacolo nella forma di un equilibrio necessariamente precario nell’uso degli «elementi scenici ad accompagnare il monologo», a tratti sovrastrutturato dalle musiche (originali) di Luca Tomassini e tagliato con bell’enfasi emotiva dalle luci di Flavio Tambuirrini, tradisce, allora, non solamente una significativa dose di attualità, quanto, anche e soprattutto, fino a che punto la questione sia ben più complessa di come possa apparire ai fautori di un’educazione autoritaria, a chi propone modelli pedagogici che guardano con sospetto al crollo degli idoli e finiscono per considerare le nuove generazioni inadeguate rispetto alla gestione delle proprie pulsioni. Lettera al padre ricorda senz’appello come tale prospettiva ignori quanto e in quale misura e modalità esse (le nuove generazioni) siano minacciate da un sistema totalmente asservito a bisogni e consumi indotti a reti e canali unificate, a un sistema che proibisce attraverso non il divieto, ma l’assenza di alternative all’immaginario dominante e piega, omologandola a sé, «un’energia ribelle che bisognerebbe soffocare» (La volontà di sapere, Michel Foucault).

Al senso di colpa si accosta una destrutturazione intima, dettata dal senso della paura, dall’autopercezione della propria disfunzionalità eterodiretta rispetto a un ipotetico (dunque disumano) standard. Farsi male, in questa prospettiva, diventa a sua volta funzionale, volersi bene disfunzionale, l’esistenza è ormai un errore in sé. Un errore mascherato da orrore, un processo di etichettamento che punisce l’individuo, facendogli perdere la facoltà di un’autovalutazione serena di sé, e lo lascia macerare nell’insoddisfazione e nello sconforto; un errore di cui, fortunatamente, le più recenti prospettive educative riabilitano il ruolo fondamentale e declinano la necessità di sbagliare quale presupposto e possibilità per una formazione creativa, flessibile e capace di valorizzarsi attraverso l’elemento ricorrente e permanente dell’esperienza nella vita umana.

Adattato, diretto e interpretato da Gabriele Linari, Lettera al padre è, senza riserve o mezzi termini, un autentico capolavoro, un’opera d’arte che, pur adagiandosi sulla tematica pedagogica, non disvela alcun insegnamento se non nella misura in cui inquieta e scuote, logora e, infine, lascia sprofondare nel buio dell’oscurità chi riconoscerà non avere alcuna risposta risolutiva da opporre all’evidenza di un lancinante rapporto familiare che chiunque potrebbe dire di aver vissuto.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Studio Uno
Via Carlo della Rocca, 6
dal 30 novembre al 3 dicembre

Lettera al padre
da Franz Kafka
fonica e luci Flavio Tambuirrini
aiuto regia Alessandro Porcu
musiche originali Luca Jontom Tomassini
adattato, diretto e interpretato da Gabriele Linari