Nel contesto del Festival Più che danza, sono stati presentati nella giornata di venerdì 6 ottobre lo spettacolo Bianco, messo in scena da ABC- Allegra Brigata Cinematica; Present Tense, ispirato al romanzo Momo di Michael Ende (l’autore, per intenderci, de La Storia infinita e in gioventù drammaturgo), allestito da Orientale Sarda; e infine Sull’identità di Muxarte, adattato, questa volta, da Uno, nessuno, centomila di Pirandello.

Nel primo spettacolo, dominato dalla tonalità eponima, la danzatrice pone il corpo in relazione con l’altro, con oggetti che di volta in volta si modificano (un copricapo, un cuscino, la corolla di un fiore); ma l’altro può anche divenire un linguaggio diverso da quello del corpo sulla scena, come la musica, dalla quale viene talvolta trasportata, talaltra invece respinta. La metafora del foglio bianco, propria della scrittura ma in realtà comune a ogni forma artistica, si apre dunque a una duplice lettura: da un lato, rappresenta la massima libertà creatrice, l’ispirazione libera da vincoli e costrizioni, il dominio totale che l’artista possiede sull’opera ancora in fieri; dall’altro, tale metafora può essere foriera di angustia e preoccupazione, in quanto le infinite possibilità racchiuse nell’opera ancora in divenire e non già in atto vanno selezionate e censite e molto spesso scartare. La creazione artistica si configura dunque come selezione continua delle varie parti, via via che il foglio bianco viene vergato dall’inchiostro dell’ispirazione tradotta in atto.
Il concetto del tempo occupa invece il secondo spettacolo; non per nulla, il romanzo ispiratore e l’opera intera dello scrittore tedesco è appunto imperniata su tale argomento, e dal romanzo giungono anche suggestioni e personaggi come la tartaruga Cassiopea. Il tempo presente (questo il titolo dello spettacolo) viene qui manifestato attraverso videoinstallazioni che interagiscono coi personaggi in scena, cercando l’effetto di un inutile e forsennato andirivieni, di un movimento coatto e senza scopo. I temi della critica alla frenesia dell’età contemporanea, all’abulia del consumo e al pericolo di dissipare il tempo della vita, unico umano possesso, erano già contenuti nel romanzo di Ende. Nell’accostamento fra il corpo dell’attore sulla scena e le immagini registrate proiettate alle sue spalle, si ravvisa però un contrasto, una discrasia, fra due linguaggi, il cinema e il teatro, che si ripercuote negativamente sul secondo, vista quella che Burch acutamente definiva «la forza singolare della sua [del cinema] produzione diegetica». Della capacità propria del cinema di creare, attraverso il movimento sia del filmico (degli attori ripresi o di qualunque altro elemento scenografico o comunque registrato dalla macchina da presa) sia del profilmico (ovvero appunto, della macchina da presa e del suo obiettivo), «il sentimento pieno e intenso dell’esserci», di coinvolgere dunque maggiormente lo spettatore, di colpire più in profondità, abbiamo qui una plastica rappresentazione, un’ennesima conferma che può nuocere e indebolire il linguaggio teatrale.
Nel terzo spettacolo, infine, ispirandosi al romanzo pirandelliano, gli autori ed esecutori si domandano se e come il nostro movimento venga registrato, compreso e interpretato dagli altri, da chi l’osserva, da chi ne è causa e fine. Siamo consapevoli di muoverci in un dato spazio? E come questo nostro essere in scena, questo nostro agire, si ripercuote su noi stessi e sugli altri? Se le nostre azioni vengono intese diversamente dagli altri, da coloro ai quali sono rivolte, ne siamo ancora noi gli artefici e i creatori? Come nel romanzo di Pirandello, la nostra identità s’indebolisce fin quasi a svilire e a scomparire, a rendere ognuno di noi non più soltanto se stesso, individuo unico e assoluto, ma «uno, nessuno, centomila».
Ad accomunare i tre spettacoli sembra dunque essere un senso di non finito, quasi il pubblico potesse, da sorta di una specola privilegiata, osservare direttamente nel laboratorio dell’artista, durante le prove e la messa a punto di quanto sarà soltanto in seguito portato in scena al suo cospetto, concluso e cesellato in ogni sua parte. Il processo creativo viene dunque colto nel suo farsi, nel divenire, in quello che potrà essere, in cui potrà evolvere e svilupparsi ma che per il momento è solo in potenza. In tal senso, più che di spettacoli nell’accezione di «opere finite offerte all’attenzione del pubblico», per i tre segmenti qui analizzati sarebbe più opportuno parlare di studi nel senso nobile del termine, di opere al di qua di una forma già fissa e definita, ancora mutevoli e cangianti, aperte ad approfondimenti e suggestioni, nonché a possibili arricchimenti e persino deviazioni.

Più che danza
Festival dedicato ai linguaggi performativi contemporanei
Quarta edizione

Teatro Fontana
via Gian Antonio Boltraffio 21, Milano
dal 29 settembre al 6-11 ottobre 2017
ideazione e direzione artistica Franca Ferrari
in collaborazione con Teatro Fontana
e con C. I. M. D, Conformazioni, Il Filo di Paglia, Lelastiko, Le Voci dell’Anima
col sostegno di Fondazione Cariplo
mediapartener Persinsala
schede degli spettacoli: https://teatro.persinsala.it/festival-piu-che-danza/43368