Carambol!

Roberto Bacci, alla sua nuova collaborazione col Teatro Nazionale rumeno di Cluj-Napoca, dà vita a uno spettacolo straordinario, sorretto da interpretazioni intense, tremendamente credibili. Sensibile recettore della lezione di Grotowski per un teatro povero, il regista toscano riesce a restituire l’ambivalenza che ha connotato il testo originario fin dalla sua prima apparizione, pensato da Cechov sotto forma di commedia e messo in scena da Stanislavskij come una tragedia.

È un soave scambio culturale, privo di alcun medium tra attore e spettatore, questo Livada de vişini – Il giardino dei ciliegi, un’autentica esperienza totale in cui, per il continuo confronto, il teatro illuminato e il respiro di ogni odore cui si fa cenno, si dà prova di una altissima dignità ed eleganza artistica.

Sorretto da interpretazioni straordinarie, raggiunge un mirabile equilibrio interno, che lo salva dai rischi del patetismo o di un’eccessiva stravaganza. L’intero teatro è abitato, agìto dagli altri: il sipario è già aperto, durante l’intervallo non viene chiuso, vi è un ponte che, dal palco, si protende fin quasi all’ingresso. Su di esso gli attori saltano, corrono, cadono; da esso, alla fine, ripartono. E come dimenticare Ljuba che, sorretta dal fratello Gaev, balza di poltrona in poltrona fino ad attraversare l’intera platea o gli attori che, durante l’intervallo, popolano i palchi laterali?

Tuttavia, proviamo a distrarci dalla messinscena per volgerci all’intreccio.
Ljuba, l’aristocratica proprietaria della tenuta che ospita il giardino dei ciliegi, è appena tornata da Parigi, assieme alla figlia e a uno stuolo di governanti e lacchè. Ad attenderla trova il fratello, la figlia adottiva Varja e il ricco mercante Lopachin, figlio dei servi che erano appartenuti al nonno di Ljuba e Gaev. Il clima è festoso, sebbene tutti siano al corrente del fatto che la tenuta sia stata messa all’asta. Subito Lopachin propone di tagliare il giardino e dividere in lotti la proprietà, così da poterci costruire dei villini.
Mentre alcuni personaggi si affannano per salvare la tenuta, sulla scena si succedono i mancati amori di Duniasa e Jasa, di Epichodov e Duniasa, di Lopachin e Varja, infine di Anja e Trofimov. La fenomenologia dell’amore è desolante e, per personale parere, il vero centro focale dello spettacolo, quello cui sono rivolte trovate registiche indimenticabili. L’amplesso di Duniasa e Jasa dietro una barricata di valigie con l’irruzione di Epichodov nudo che suona la chitarra e minaccia di uccidersi per le sue disgrazie ne rappresenta una capace di elevare a perfezione l’adattamento di un testo già compiuto.
Paradigmatica è poi la figura di Ljuba: quando «il problema, irrevocabilmente» sta per essere risolto, si abbandona ancora all’amore e decide di tornare a Parigi. «Lo amo, lo amo… È questa la pietra che ho al collo e che mi porta sul fondo, ma io amo questa pietra». Ljuba è una donna che ha rifiutato di accettare la mutata situazione socio-economica della sua patria e le sue disastrose esperienze sentimentali. A esse ha sacrificato tutto, lasciandosi derubare del patrimonio, senza rimpianto, essendo anzi animata da un’affezione sacrale (non a caso liubov’ in russo significa amore) verso questi uomini depravati.
Una volta conclusa l’asta e la proprietà del giardino dei ciliegi passata a Lopachin, Ljuba e Gaev si rasserenano, pronti a volgersi verso nuovi godimenti.
Nonostante la componente sociale sia a fondamento dell’opera, gli accenni nostalgici alle servitù da una parte e gli appassionati discorsi del bolscevico ante litteram Trofimov dall’altro, sono situati sullo sfondo, tesi a rendere con soavità il colore di un’epoca di transizione. Certo, Lopachin è necessario «come nell’ordine della natura è necessaria la bestia feroce che mangia tutto ciò che incontra sulla sua strada» e tuttavia anch’egli, al pari di quei ciliegi abbattuti dalle motoseghe che odorano realmente di benzina, verrà mangiato da una bestia impietosa.

Per questo l’unica risposta da dare a Epichorov, quando chiede «non riesco proprio a capire… se vivere o tirarmi un colpo», non potrebbe che essere «vivi, per amore (liubov’)».

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro della Pergola

Via della Pergola, 12/32, Firenze
23 e il 24 febbraio 2016
ore 20:45

Fondazione Teatro della Toscana e Emilia Romagna Teatro Fondazione presentano
Livada de vişini – Il giardino dei ciliegi
di Anton Cechov
traduzione Maria Rotar
drammaturgia Stefano Geraci
regia Roberto Bacci
con Ramona Dumitrean, Alexandra Tarce, Anca Hanu, Ionuț Caras, Sorin Leoveanu, Cristian Grosu, Cǎtǎlin Herlo, Irina Wintze, Radu Lǎrgeanu, Patricia Brad, Cornel Răileanu, Matei Rotaru, Miron Maxim
musicisti Pusztai Renato Aladar, Albert Gábor Balázs
scene e costumi Adrian Damian
direzione tecnica Doru Bodrea
luci Jenel Moldovan
suono Marius Rusu
assistenti luci Alexandru Corpodean, Mădălina Mânzat
assistente scenografia Florin Călbăjos
coordinatore numeri d’illusionismo Florin Suciu
suggeritrice Ana Maria Moldovan
assistenti alla regia Maria Rotar e Francesco Puleo
produzione del Teatro Nazionale di Cluj-Napoca