Eschilo mon amour

Accademia Perduta/Romagna Teatri e Società per Attori rileggono l’Orestea di Eschilo in una rappresentazione in cui personaggi, testo e immagini assumono un senso nuovo, seducente e convincente.

Nel corso del XX secolo, la questione della norma, della normalità e della normalizzazione è stata posta all’attenzione del dibattito scientifico e umanistico, soprattutto per la valenza ideologica con cui tale identificazione è stata data per scontata. La riflessione contemporanea ha fatto sì che l’argomento sia stato oggetto dei più disparati ambiti di analisi – da quello filosofico a quello biologico, da quello politico a quello sociologico fino a quello artistico – e non sorprende che il teatro sia stato instancabilmente “assillato” dal problema dal momento che tra i suoi più audaci e profondi interpreti è possibile annoverare uno dei padri putativi della drammaturgia occidentale come Eschilo.

Se, a titolo generale, la questione è controversa e cruciale, lo è perché in essa cova il core  ideologico su cui l’Occidente ha sviluppato il proprio funzionamento e ha edificato i propri valori in termini “razionaleggianti”. Oggi, l’approfondimento dialettico su ciò che viene incluso e ciò che viene escluso dall’identificazione tra norma, normalità e normalizzazione è all’ordine del giorno, ma il fatto che, della sua radicalità, non se ne abbia autentica consapevolezza porta spesso a contorsioni romantico-paternalistiche e all’idea secondo la quale la malattia mentale, l’anormalità per eccellenza perché nascosta dalla rassicurante maschera dell’aspetto esteriore, sarebbe unicamente dovuta a problemi di carattere esistenziale ed emotivo (mancanza di amore, precarietà del contesto socio-economico-familiare, violenze infantili: sarebbe “bastato” porre rimedio a una tra queste cause oggettive per evitare l’insorgere della patologia e, dunque, non alterare la psicologia del o della malcapitata di turno). Pur non avendo intenzione di negare le drammatiche conseguenze sulla salute umana determinato dall’omologante conformismo neoliberale e consumistico dei nostri tempi bui, la realtà è infatti ben più complessa e le tendenze psichiatriche più recenti hanno fatto tesoro di alcune esperienze che, nella seconda metà del Novecento, hanno affermato il diritto a un’esistenza quanto più possibile integrata e integrale ampliando le proprie procedure dal necessario e indispensabile intervento farmacologico ad approcci più complessi di natura psicoterapeutica, delimitando i trattamenti sedativo-repressivi e potenziando la riabilitazione funzionale, sociale e personale del soggetto. Insomma, eludere l’idea di Foucault dell’orientamento nei termini di biopotere del dibattito pubblico sulla definizione di cosa siano un corpo e una mente normali, dunque sulla costituzione della Norma in termini pratici e teorici, oggi non significa più dover necessariamente regredire a una prospettiva di esclusiva disciplina dei “pazienti” attraverso interventi invasivi e disumani, oltre che privi di scientificità, come elettroshock, confinamento coatto, privazione degli affetti familiari e del conforto sociale.

Racconto a più voci dell’unico personaggio in scena, L’Oreste di Accademia Perduta/Romagna Teatri e Società per Attori è uno spaccato assolutamente coerente rispetto all’articolata situazione appena descritta, situazione che, spesso demonizzata, andrebbe dunque ricompresa nelle sue ragioni “storiche. La voce narrante – anzi le voci narranti – nel suo schizofrenico oscillare tra memorie e ricordi, tra passato e presente, tra famiglia, Case famiglia e Trattamenti Sanitari Obbligatori, problematizza la questione della libertà, che Oreste  – come ci ammonisce il tragico finale – per forza di cose non è in grado di gestire autonomamente.

Oreste è infatti vittima, ma anche carnefice; è incapace di prendersi cura di sé, ma anche un pericolo per gli altri; le pareti della sua stanza non sono solo quelle di una cella asfissiante, ma anche quelle di un mondo in cui può materializzare i propri demoni e i propri angeli, immaginando di essere amato, controllato e consigliato per «riavvolgere il nastro». Eviteremo di addentrarci nelle dinamiche del bel testo di Niccolini, rispetto al quale l’interpretazione di Casadio è ruggente e straziante, perché rimane soggettiva la narrazione di una storia disfunzionale da cui, purtroppo, nessuno può dirsi al riparo. Potente è invece la riflessione sulla società – sulle responsabilità collettive nei confronti del singolo e sulle debolezze del singolo nei confronti di sé stesso – e sulla persona – sulla lacerazione dell’essere umano che, forse scientificamente insondabile, è sempre storicamente co-determinata (caso esemplare è quello dell’anoressia nervosa, la cui incidenza, tipica dell’età adolescenziale, dei paesi industrializzati ricchi di cibo e prevalentemente del sesso femminile, sta rapidamente cambiando target di genere e anagrafico).

Al netto di qualche asincronia nel dialogo con le proiezioni delle immagini e dei mondi disegnati da Andrea Bruno (in cui prendono – o perdono – colore e forma figure di umanità e dolore) che immaginiamo dovute alla necessità di adattamento al raccolto spazio del rinato Teatro Due di Roma, tutto dello spettacolo convince, dalla scelta realista della scenografica che tende a densificare un’immagine “familiare” triste ma curata, all’interpretazione di Claudio Casadio che di Oreste ha le physique du rôle, la voce spezzata ma non tremante e le stigmate nella mente e nell’anima.

Il parallelismo con l’operazione pasoliniana di attualizzazione della celebre tragedia di Eschilo dà spessore a una storia dove il pesante fardello del destino incrocia le conseguenze della rivolta edipica e si sostanzia nella celebre sentenza tratta dalle Coefore eschiliane che fa da sottotitolo («i morti uccidono i vivi»). L’Oreste recupera l’ascendenza classica “alta” e la contamina con suggestioni tosco-romagnole “basse” per dar forma a un’operazione in cui il fondale dei temi tragici (il matricidio, il diritto, l’umanesimo) continua a sostenere una seria riflessione sull’essere umano occidentale.

Lo spettacolo fa della propria caratura lirica il sostrato di un convincente realismo che non mostra mai il fianco a forme di pietismo  o di scimmiottamento della fantastica stagione dell’antipsichiatria negli anni 60/70 del secolo scorso, quando Franco Basaglia, con Michel Foucault e altri, squarciava il velo dell’invadenza del dispositivo psichiatrico quale strumento di controllo e, of course, normalizzazione.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Due Roma
vicolo dei Due Macelli, 37 Roma

L’Oreste
quando i morti uccidono i vivi
di Francesco Niccolini
con Claudio Casadio
illustrazioni di Andrea Bruno
scenografie e animazioni Imaginarium Creative Studio
costumi Helga Williams
light design Michele Lavanga
musiche originali Paolo Coletta
aiuto regia Gaia Gastaldello
direttore di scena Sammy Salerno
tecnico video Marco Schiavoni
collaborazione alla drammaturgia Claudio Casadio
voci di Cecilia D’Amico (sorella), Andrea Paolotti (Ermes), Giuseppe Marini (dottore) e Andrea Monno (infermiere)
regia di Giuseppe Marini
uno spettacolo co-prodotto da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Società per Attori
in collaborazione con Lucca Comics & Games
foto Tommaso Le Pera