Parte prima

Giovan Bartolo Botta mette in scena al Teatro Studio Uno di Roma una retrospettiva di opere ispirate ai classici. Occasione per noi di Persinsala di indagare un autore emergente attraverso uno studio diviso in due parti. Ecco la prima.

La seconda parte
Il goal di Van Basten a Rinat Dasaev / Il Teatro senza spettacolo di Giovan Bartolo Botta

Siete mai saliti su un ottovolante della parola? Ecco la sensazione che si prova a incontrare il drammaturgo e attore Giovan Bartolo Botta, diseducato a Cuneo e romano di adozione. L’occasione è data dalla retrospettiva che i direttori artistici del teatro Studio Uno, Alessandro Di Somma e Eleonora Turco (nobilissimi intenditori di questo teatro del sottosuolo) hanno deciso di mettere in cartellone dal 16 al 26 novembre 2017. Si tratta di un monologo – Amleto Punk – e di tre spettacoli corali allestiti dalla compagnia Ultras Teatro: Antigone fotti la legge (tratto da Sofocle e soprattutto dalla rielaborazione di Jean Anouilh del 1944), Bernarda o il kaos di Bernarda Alba (da Garcia Lorca), Agenti e castisti (ispirato a Glengarry Glenn Ross di David Mamet).

Il catalogo che unisce tutti i lavori è una ricerca su quel momento in cui una fase della vita finisce e l’uomo si trova a urtare qualcosa di intollerabile, di troppo potente o ingiusto – e allo stesso tempo fatalmente fragile – da eccedere le capacità sensibili di quel corpo sia nel dolore che nel desiderio di felicità. Si tratta del momento in cui ci si assume la propria eredità, quella lasciata dai nostri padri, contraddittoria e sentita come aliena, portatrice per tutti di un destino di morte.

Per assumere una ricerca così fondativa, la compagnia mette nel mirino i classici. Sfidare la loro eternità vuol dire riportarli all’oggi senza renderli di moda, rinunciare a decorarli con bei costumi di scena, a recitarli con “trombonismi vocali”, con musiche che cullino nella nostalgia per qualcosa di perduto. C’è solo il tempo di un’azione ed è adesso! Non si tratta più di riportare in vita un testo “morto”, per quanto di Shakespeare o di Sofocle. Si tratta di eccedere Shakespeare in questa aberrante contrazione del tempo, in cui il testo è pre-testo, l’occasione per un’esplosione, vivificata da questo invito all’eternità compresso in una detonazione di grande teatro. Tutto diviene urgente. È puro lavoro sull’attore a cui si lascia solo un attimo, da dilatare per il tempo necessario a fondersi con esso, senza appigli, senza paracadute.

Il tempo manca, come manca a un ragazzo che diventa uomo, sottoposto com’è a una spinta inumana, quasi selvaggia. È curioso come un progetto testuale meticolosamente scritto, illuda sulla possibilità patetica di fermare il tempo e di fare teatro nelle sue pause, credute suscettibili di essere allargate a piacimento. Perché il teatro dovrebbe essere un progetto replicabile e sfuggire così alla vita a cui crede di ispirarsi? Dio non concede al teatro quanto nega all’uomo. Il “verbo” dell’autore è pattume. Il grande teatro agisce solo nei “frattempi” e sulla scena, nel tempo rubato al tempo, come accade ai fuoriclasse del calcio evocati continuamente da Botta.

In Amleto punk il principe danese è stanato dal fantasma di suo padre. È chiamato a un dovere tirannico, quello di una pratica indigesta col Reale duro e crudo, che piuttosto di assumersi (vendicare il regicidio), cerca di rinviare facendone teatro o delirando un goal agli europei come quello di Van Basten a Rinat Dasaev nel 1988. L’orrore appartiene alla spinta verso una vita adulta che Amleto avverte come una “trappola per topi”, volendo rimanere il bambino onnipotente che vuole essere amato solo in virtù di nascita.

Shakespeare è solo occasione di fare biografia, ma di chi? È Amleto a raccontare Botta o viceversa? Dopo gli “Amleti di meno” di Carmelo Bene, Botta dà l’ennesimo giro di vite all’epopea del Principe danese e tutto in sottrazione. Spezza il testo come un epilettico iconoclasta della parola, lo contagia con reminiscenze di calcio, con citazioni di cronaca all’apparenza distratte, tra le quali può cadere un monologo del Bardo che irrompe come l’aria di un’opera lirica (“Ah, se questa mia troppo solida carne”).

Nei successivi e più corali lavori, l’azione procede per fiammate tra due, massimo tre attori per volta, ognuna con un pressing forsennato. Tutti i “passi a due” hanno un vago sapore mametiano, quella costruzione drammaturgica per cui dal niente si accende un confronto tra corpi di parola, che in Botta possono prescindere dal personaggio. Non vi sono infatti costumi di scena; i corpi attoriali si ingaggiano in un flusso con un nome, poi in un altro con altro nome (o personaggio) con la più sorprendente naturalezza.

In Antigone fotti la legge, la figlia e sorella di Edipo è colta come per Amleto al momento dell’impatto soggettivo con la propria ereditata verità. Sente di non poter essere felice, se la sua felicità dovesse dipendere dal riparo dietro l’arroganza di una legge umana tale da contraddire quella divina. L’offerta di Creonte di venirsi incontro su una menzogna da agitare per il popolo (si dovrà far credere che il cadavere insepolto sia di Polinice, benché questo risulti ormai introvabile nel groviglio della battaglia), non rende più docile la giovane, erede inflessibile del lato oscuro di suo padre, quella protervia conoscitiva che non si ferma davanti alla ragion di stato, né alla tentazione di strappare la propria vile fetta di felicità.

L’assunzione soggettiva dell’eredità avuta da Edipo è in scena come eccedenza, come un “dar di fuori”. I dialoghi sono forsennati; la voce dell’attore è invettiva, modulazione, sberleffo, grido. Connota il testo sottostante come trampolino per effettuare un’aldilà della parola al suo corpo. Non può farne a meno; è il testo a chiederglielo, ma un testo fatto a pezzi e poi subito acceso come un falò. Gli attori non danno l’idea di interpretare personaggi, ma di essere soggettività scritta da un destino che dall’alba dei tempi, da Sofocle a Mamet, scorre di corpo in corpo senza placare la sua corsa, che fa scempio della fragile coscienza degli uomini.

Anche Adele – figlia di Bernarda Alba – è erede di un lato oscuro materno. È la figlia nella quale sua madre inoculerà a viva forza qualcosa che non va, non da giustificare nella vitalissima spinta pulsionale a dare ascolto al proprio corpo, ma trovandola nella sua stessa singolarità di donna. La giovane – nata dal peccato, ma morta vergine – sarà l’agnello da sacrificare sull’altare di perfezione inumana di sua madre.

Alle domande succedono risposte agitate. Cosa vuol dire crescere sapendo di non essere amati (Adele)? Tra ossessione (essere) e compulsione (non essere), perché soggiacere a un’ambizione che non è il desiderio del soggetto (Amleto)? Perché sottomettersi a un destino di morte (Antigone)? Perché soggiacere alla tirannia di un dio delle vendite che seduce gli uomini tra la corona di una investitura regale e la “mancia” di un premio di consolazione (Agenti e castisti)?

Se la risposta è vana, il teatro può fare di questa vanità un ottovolante. Botta nella sua sorprendente drammaturgia non cerca di fissare un senso intorno a cui organizzare un messaggio coerente. Si concede piuttosto al vento significante, inteso come congerie concertata di oggetti di parola, aspettando che il senso emerga come da un bagno acido, dal negativo di un linguaggio che per quanto si cerchi di indirizzarlo, non è mai afferrabile. È proprio in questo spazio negativo che si situa il teatro di Botta, un negativo di cui è possibile “godere”, come bambini inebriati dalla vertigine di una giostra.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno della retrospettiva Produzioni Nostrane Ultras Teatro
Teatro Studio Uno
Via Carlo Della Rocca 6, Torpignattara, Roma
dal 16 al 26 novembre 2017

Amleto Punk
16-17 novembre

Antigone fotti la legge
18-19 novembre

Bernarda Alba o il kaos di Bernarda Alba
23-24 novembre

Agenti e castisti
25-26 novembre