Ritratti d’autore

La stagione 2016-2017 del Teatro Argot apre i battenti con uno spettacolo fuori programma che sembra quasi scontrarsi con il motto di quest’anno: «la felicità è una cosa semplice». Nei panni di un’ombra, con il suo NIENTE PANICO – Vaneggiamenti di un patafisico involontario, Luca Avagliano ci suggerisce che non c’è proprio nulla da ridere, che la situazione è tragica e che, in fin dei conti, per essere felici bisogna faticare davvero tanto. Perché l’arte della felicità è sì «custodita al sicuro, dentro le mura del nostro cuore», ma è anche stata nascosta molto bene.

Persinsala ha intervistato per l’occasione l’attore e autore Luca Avagliano.

Classe ’82, Luca Avagliano nasce che è un bambino. La barba incolta mal cela la sua pubertà latente e, nonostante il peso degli anni, il bambino interiore continua a regnare sovrano nella mente ben spaziosa dell’attore di Prato. E a proposito di topos (in tutti i sensi), proviamo a tracciare una mappa anatomica della sua formazione. Comincio io: la lingua è evidentemente toscana. Ma la testa? E le mani? E i piedi che si muovono leggeri e pesanti al contempo?
Luca Avagliano: «Si, in effetti son venuto al mondo che ero ancora solo un bambino poi però per fortuna mi sono reso conto che è stata anche una gran bella cosa perché è un bel modo di affrontarlo… il mondo, così come il mio mestiere. Il gioco, per come lo affronta un bambino, in purezza, è ciò che sta alla base, per me, della recitazione, che la rende concreta, seria, urgente e necessaria. Comunque, tornando alla domanda. Tutto parte, anatomicamente parlando, dalle orecchie, dall’ascolto: voci, suoni, le note che escono dagli strumenti musicali… da sempre ho cercato di acciuffarli al volo e di replicarli, per gioco e per comprensione… poi però l’imitazione pura si scontra con il fatto che questi suoni prima di riuscirmi dalla bocca mi girano per un po’ in testa e quindi vengono reinterpretati e, che ne so, un bassotuba o una marmitta sfondata diventano un testimone che parla del suo rapimento alieno con la voce censurata, va’ a capire cosa ho in testa… probabilmente un crogiuolo di roba che va ben oltre la mia origine anagrafica o di appartenenza geografica che in effetti si divide tra Toscana e la Campania e che comprende tutto ciò che sono riuscito finora ad infilarci dentro, riferimenti recitativi e autoriali chiarissimi (Troisi, Nuti, Verdone, Moretti o, guardando fuori, Woody Allen, Gene Wilder, Robin Williams, i Monty Python…) così come quelli letterari e teatrali, filmici, musicali, pittorici, paesaggistici, zoologici, di parentado… e tutto si ripercuote non solo nella voce e nella proprietà di linguaggio… ma anche nel corpo e in come lo muovo… soprattutto in scena… insomma è per questo che il mio “Estro”… balla da Dio!!! O no?».

Come è possibile che una formazione ormai definibile “classica” e per certi versi anche fortunata (leggasi seminario con Anna Marchesini) non sia riuscita ad appiattire quell’ostinato estro creativo che grida a pieni polmoni la propria, fastidiosa, presenza?
LA: «Ho avuto la fortuna e la curiosità di potermi formare nel modo più variegato possibile e poi, continuo a considerare chiaramente la mia formazione tutt’ora perpetua, mai ferma. L’appiattimento credo avvenga nel momento in cui ciò che ci viene proposto lo si apprende passivamente o senza un sguardo critico che costringa ad una propria rielaborazione. Studiavo alla facoltà di Farmacia e volevo disegnare fumetti, ma poi cosa succede? Inciampo nel teatro, chissà per quale spinta curiosa… scoprendo in realtà di averlo sempre amato, come lo prova la tradizione natalizia della visione di Natale in Casa Cupiello in vhs, appuntamento irrinunciabile tutt’ora, o la memoria piacevolmente vivida di alcuni spettacoli e in particolare di una compagnia teatrale che ho avuto, un po’ di volte, la fortuna di vedere nei miei anni di scuole medie e liceo con l’abbonamento al Metastasio, ovvero “i Fratellini” con Bartoli e Cantarelli… L’inciampo concreto e pratico nel teatro avviene poi, casualmente, in un ambiente ricco di stimoli, molto poco classici, con Barbara Nativi, in un contesto in cui regnava la ricerca e uno specifico attento sguardo verso la drammaturgia contemporanea, venendo in contatto diretto con, che so, Mark Ravenhill o Rodrigo Garcia… tutto questo mentre, nel frattempo, giocavo a esibirmi al laboratorio Zelig di Firenze o vivendo esperienze internazionali di Commedia dell’Arte, mentre studiavo i meccanismi della scrittura con Stefano Massini e mentre, abbandonata Farmacia e ormai frequentando Lettere, mi appassionavo, si, al Teatro Classico ma soprattutto avvicinandomi ad alcune correnti e autori teatrali in particolare all’assurdo o alle commedie satiriche russe e quindi Nikolaj Erdman, Gogol, Ionesco, Jarry e Vian, cominciando proprio a tradurli o a riscriverli per capire i meccanismi di quelle scritture che mi affascinavano e divertivano… l’uso del surreale, del grottesco, la parodia, l’umorismo… i neologismi intraducibili… e poi… arriva lei, l’Accademia, ma anche quello non lo definirei proprio un percorso canonico, classico e fermo, i miei sono stati anni tribolati per la Silvio D’Amico, di rivoluzione: occupazione, blocco della didattica e percorsi seminariali ottenendo di poter incontrare professionisti e personalità “in attività” nel mondo teatrale… ecco che tra le mura accademiche si sono svolti alcuni dei miei incontri fondamentali, aldilà di avere il piacere nel citare quella gran testa illuminante che era Ronconi, c’è stato il signor Danio Manfredini, capace di farmi proprio spostare i punti di vista nel leggere e affrontare testi e personaggi e la signora Anna Marchesini a cui sono e sarò sempre infinitamente grato e legato perché concretamente è stata lei che mi ha introdotto a prender coscienza del ruolo serio della farsa, di partecipare al gioco colto e infantile del teatro assecondando la mia indole lunare e incline al far ridere e in questo, forse con un po’ di ritardo, sto provando a renderla fiera. Lo stesso tipo di stimolo, anni dopo, mi è stato fornito da Paolo Rossi che mi ha esplicitamente consigliato di occuparmi della mia poetica, di abbattere timidezze e ritrosie perché quella era la mia strada, non la fila col numerino ad aspettare il mio turno. Infine aggiungo… poi la smetto che mi sto accorgendo quanto sia stata prolissa questa risposta… che fondamentali sono stati anche alcuni miei compagni, di Accademia prima e di professione dopo, con i quali si è sviluppata una interazione fatta di profonda stima e crescita reciproca all’insegna, di nuovo, di un costante clima di goliardico gioco nella direzione istintiva e comune di volerci imporre nel solco della tradizione della commedia in teatro e, perché no, in cinema. Ecco tutto questo ha stimolato e stimola la mia propensione alla creatività, al mio essere attor-autore in scena».

«Gioisco nell’improvvisare, giubilo se devo dire e interpretare belle parole e raccontare storie che vale la pena di raccontare». Aldilà del compiacimento personale derivante dal masticare poesia e prosa all’aroma di gelsomini e brezze marine (e quindi belle, per intenderci), cosa rende sopportabile la pena di condividere una narrazione? In quale anfratto umano e non risiede il valore di una storia?
LA: «Anche solo considerando le particelle più elementari di una storia, le sole parole, a volte, quando vengono messe in una successione efficace, anche per un puro fortuito caso, riescono ad avere un effetto sorprendente in chi le ascolta… è una magia, e quindi qualcuno le deve pronunciare. Prender parte a questa magia, dando voce a quelle parole e restituire il proprio senso attribuito a quelle successioni, dargli corpo e vita è più che sopportabile, è una felicissima responsabilità che ho deciso di assumermi. Adesso provando a essere autore in prima persona di successioni di suoni con significati, insomma frasi e poi intere storie, la responsabilità, da una parte, si semplifica perché si riduce la possibilità di tradire con la mia reinterpretazione quanto ho scritto, ma non è detto che non mi tradisca, come non è detto che la mia reinterpretazione di ciò che è stato scritto da altri sia necessariamente un tradimento fuori luogo e poco interessante; dall’altra sorge il problema di avere un’urgenza narrativa a cui corrisponda soprattutto la curiosità e l’interesse delle persone a cui sarà proposta. Sembra una supercazzola? In quale anfratto vado a nascondermi?».

Niente Panico – Vaneggiamenti di un patafisico involontario è il primo lavoro nato da, in, con, su, per, tra e fra te. Che ne è stato delle preposizioni semplici mancanti?
LA: «Allora. Mancano Di e A che unite fanno Dia che, non considerandolo un acronimo, diventa semplicemente il femminile di Dio… quindi… Dove si trova per me l’essere femminile per eccellenza? E’ questo che mi chiedi? Vuoi sapere notizie di gossip? Se sono fidanzato o se idealizzo in maniera patologica una qualche figura femminile?».

Vaneggiamenti a parte, perché, dopo una carriera quasi sempre corale, si è fatto sentire il bisogno di stare soli (perlomeno nel corpo) su un palcoscenico? Come nasce un monologo a più voci? Quante sessioni vanno saltate dallo psichiatra per arrivare a parlare di castori davanti a una platea quasi sempre gremita?
LA: «Che questo spettacolo diventasse per me un’urgenza è successo, prepotentemente, strada facendo. La sua genesi invece, anche stavolta, come la mia frequentazione col teatro, è stata un inciampo casuale, dovevo fare uno spettacolo non da solo, rischiava di saltare e io ho proposto un’alternativa: “Ho un monologo!” (questo è ciò che Paolo Rossi mi ha insegnato a chiamare Teatro di Sopravvivenza), in cinque giorni ho buttato giù un po’ di appunti, accrocchiato qualche idea e via, eccomi a giocare da solo, a quello che era l’embrione di Niente Panico (titolo allora scelto per darmi coraggio? No). Per anni ho avuto molte resistenze nel dover affrontare il palco da solo, non per timidezza o paura, ma perché considero interessante e fondamentale l’interazione in scena, vedere qualcuno che gioca da solo… bah… dev’essere quanto meno interessante il gioco. E il giochino che piano piano stavo costruendo mi ha iniziato a interessare e divertire. Come nasce? A voci alte. Si è delineato, nell’improvvisazione, in forma di flusso di… incoscienza a varie voci. Di tanto in tanto mi fermavo stupendomi di che cosa diamine ero riuscito a dire o fare o della nascita di certi personaggi che mi possedevano e, soprattutto, mi fermavo per controllare che non si perdesse il filo. Si ma quale filo? Il come affrontare un abbandono amoroso sancito dalla frase “Non abbiamo più un futuro”. Chiaramente ne sono usciti fuori, a tormentare l’inetto e disperato IO protagonista, gli alieni, un professore di scienze e poesia, un fanciullo interiore, un estro danzante, il demonio e uno psicoterapeuta. Ah si… procioni e castori».

Andato in scena per la prima volta al Festival di Troia Teatro e ora pre-stagionato all’Argot, Niente Panico può tranquillamente considerarsi l’inizio di qualcosa. Che sia un percorso lungo e felice o una discesa rapida e piena di triboli, qual è la direzione intrapresa?
LA: «Adesso spero che possa essere visto il più possibile e di farlo ovunque e da subito… quindi, si, mi auguro un percorso ricco e felice… lungo… certo, anche perché, chiaro, avendo praticamente debuttato a inizio stagione molte possibilità sono rimandate all’anno prossimo, poi l’arco di vita di questo spettacolo chissà quale sarà, anche perché in tutto questo sto già pensando ad altre cose che vorrei sviluppare e pensarle troppo a lungo termine mi dispiace. Spero in un’attenzione crescente, come già comincia a esserci, spero di non dover lottare contro il pregiudizio nei confronti del “comico”: “si ride e molto… è cosa di poco conto”. Insomma sono fiducioso che Niente Panico possa arrivare a farsi notare, qualche preoccupazione c’è, ma sarò ostinato e convinto, nonostante i muri che dovrò prendermi in faccia, le oggettive difficoltà nell’ottenere attenzione, perché so che di star proponendo qualcosa che per me ha un reale valore e che ho avuto prova che così viene percepito… al Festival di Troia Teatro mi sono scontrato con l’impatto assolutamente popolare che ha lo spettacolo, c’era un pubblico numerosissimo e puro, che non è vero si riversa a teatro solo per vedere la televisione e i suoi divi dal vivo, le reazioni sono state esaltanti per tutta la settimana del festival; nella settimana all’Argot invece lo stesso esito l’ho percepito in un pubblico più di settore, bellissime critiche, teatri interessati allo spettacolo. Si, è solo l’inizio…».

Più a breve termine, dove se ne andrà l’allegra comitiva di Avagliano in pantofole?
LA: «Allora, a brevissimo Niente Panico sarà nelle Marche al Teatro Perugini di Apecchio il 22 ottobre, poi, da definire ancora bene su calendario, ma, anche lì, a breve, saremo all’Auditorium di Loro Ciuffenna in provincia di Arezzo e il 19 novembre nella rassegna Fuori Traccia a Gubbio al Centro Teatrale Umbro… poi, in maniera inaspettatamente sorprendente e piacevole, stanno spuntando un po’ di altre richieste… il passaparola ha funzionato non solo col pubblico, ma anche di teatro in teatro. Beh, c’è di che essere contenti!».

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Argot

via Natale del Grande 27 – Roma
dal 20 al 25 settembre
martedì – sabato 20.30
domenica ore 17.30

NIENTE PANICO*
*vaneggiamenti di un patafisico involontario

spettacolo, testo, canzoni e voci varie Luca Avagliano
luci a cura di Marco Santambrogio
scena a cura di Eva Sgrò
elaborazione audio di Tommaso Andreini
Ufficio Stampa e Promozione LeStaffette Uffstampapromozione