Ritratti d’Autore

Al Piccolo Teatro Campo d’Arte assistiamo alla data unica (con tutto esaurito) de La gabbia di carne. Per saperne di più su questo spettacolo selezionato al Fringe Festival 2014 che si svolgerà a Roma tra Giugno e Luglio, incontriamo l’autore e regista Luca Gaeta.

Come nasce lo spettacolo e come si posiziona in relazione al suo percorso artistico?
Luca Gaeta: «Lo spettacolo ha avuto un’ elaborazione molto lunga e frammentaria. Un paio di anni fa avevo lavorato con Valentina (la protagonista, ndr) e parlando con lei era venuta fuori l’idea di costruire un monologo sulla base di alcune esperienze che aveva avuto. Mi sono reso disponibile e andando avanti nella collaborazione abbiamo pensato di inserire, per questo lavoro, la pittura di Mirco Marcacci. Poi abbiamo accantonato il progetto che è divampato, invece, negli ultimi mesi come una cosa muta che era nell’aria, una polvere, forse un polline che ha seminato dentro fino a dare questo frutto. Non credo nel percorso artistico, ma nell’arte; l’arte divora certezze e crea scompensi e vive delle tue necessità. Cerco di ascoltarla sempre anche se mi fa deviare da un ipotetico percorso. Resto in ascolto del tempo, sempre».

L’allestimento propone un’ambientazione molto netta, un bianco candore tra l’ospedaliero e il “paradisiaco” che visivamente si oppone all’inferno (non solo interiore) vissuto dalla protagonista. Un espediente molto interessante, la cui nettezza a tratti ha determinato una certa ridondanza e pesantezza, in assenza di variazioni cromatiche e modulazioni della luce. Lei cosa ne pensa?
LG: «È quello che desideravo arrivasse. Sapevo del rischio e ho cercato di creare una sorta di effetto droste. Quindi sì, è una ridondanza voluta; perché quando si insinua in noi il tarlo del pensiero, su una qualsiasi scelta da fare, questo pensiero non ci lascia mai, torna, ci corre dietro, ci supera, si ferma e ci attende per guardarci negli occhi e questo andare e tornare è pesante, claustrofobico, ridondante, è la paura di sbagliare che ci fa rimuginare dentro la psiche ed è quello che cercavo di esprimere accettando il rischio. Ho usato pochi colori per lasciare la nettezza di alcuni segni. L’azzurro, il nero, il bianco (per creare freddezza, quella stessa della sala operatoria) e un rosso alla fine per donare la vita in un quadro di sospensione dove per tutto il tempo la vita batte a piccoli colpi, come quando si subisce un intervento chirurgico e i segnali di vita sono tenuti al minimo regime possibile».

Simile rischio non potrebbe avvertirsi nell’uso del corpo dell’attrice: inserire un “rituale” di (s)vestizione non avrebbe potuto rafforzare la percezione di un percorso di “formazione” sviluppato dalla narrazione?
LG: «Durante le prove, con l’attrice, ci siamo confrontati sull’idea di creare un rituale di vestizione (più che di svestizione); pensavo di partire da una completa nudità e poi rivestire l’attrice; ma ci siamo detti che questa nudità o esibizione del corpo poteva spostare l’attenzione e sembrare una via di fuga facile da prendere. Più che seguire un percorso di formazione ho cercato di raccontare con lampi di parole la storia; piccoli flash, spero evocativi, che potessero arrivare al cuore delle cose».

Magari allungando in prospettiva lo spettacolo e creando un contrappunto con il monologo della protagonista, è pensabile un maggiore protagonismo del processo creativo di Mirco Marcacci, di cui si ha un interessante assaggio con le proiezioni in scena?
LG: «Con Mirco, che è un’artista di grande talento e profondità, abbiamo avuto poco tempo per elaborare le immagini. Lui vive in Argentina e ci siamo visti per un breve periodo durante le prove quando è tornato in Italia. Ho girato alcune immagini di pittura (nello specifico pittura sul corpo dell’attrice) con un video-artista di nome Degene e ho montato quello che dal materiale registrato è sembrato valido per il progetto. Siamo dell’idea di aumentare il suo intervento visto l’effetto sortito».

La tematica è decisamente attuale e ben collocata tra concretezza e riflessione teorica: qual è il modello di umanità e femminilità cui si sente di rivolgersi con questo spettacolo? Quali “conseguenze” intende provocare?
LG: «La forza del teatro è quella di fornire uno specchio dove guardare ciò che ci accade. Spero di lasciare una porta aperta in cui entrare per sentire meno la solitudine. Mi sembra che intorno a storie del genere ci si senta soli e ci sia una mancanza: culturale, sociale, della famiglia, delle istituzioni. Questa mancanza rende tutto meno chiaro, mi sembra che le persone siano in preda alla paura di esistere per quello che si è Non credo sia un discorso solo femminile (anche se è quello più evidente) ma proprio generale. Vorrei che non ci si sentisse soli davanti a queste scelte, anche se a volte siamo i primi a non voler ascoltare i consigli degli altri. Proprio per questo cerco di creare attenzione; perché spesso non sono i consigli a essere sbagliati, ma i modi e le persone che li danno e quindi noi che ci chiudiamo ad essi. Vorrei che lo spettacolo fosse il consiglio giusto, quello che ti fa riflettere senza giudicare. Restando nella poesia della vita che comunque scorre nel bene e nel male».

Quali sono i prossimi appuntamenti della sua agenda?
LG: «
Sto scrivendo insieme all’attore Salvatore Rancatore il secondo capitolo della trilogia iniziata con lo spettacolo Confessioni di un burattino senza fili, che andrà in scena a Maggio in Roma».

Lo spettacolo è andato in scena:
Piccolo Teatro Campo d’Arte

via dei Cappellari, 93Roma
giovedì 10 aprile
doppia replica ore 21 e 22:30

La gabbia di carne
Mise en abyme video-pittura di Luca Gaeta
drammaturgia e regia Luca Gaeta
con Valentina Ghetti
disegni Mirco Marcacci
musiche e video-art Degene
visual Daniele Garigliano
costumi Fabiola Liberati
foto Pino Le Pera
organizzazione Kill The Ping
ufficio stampa Stefania D’Orazio