Ricordo di un Maestro

Sabato 21 febbraio, al Policlinico di Milano, si è spento Luca Ronconi. Una carriera sterminata, un’eredità complessa.

Con la scomparsa di Luca Ronconi viene meno uno dei massimi protagonisti del Teatro degli anni Settanta (per citare un celebre saggio di Franco Quadri), cioè di quegli artisti che, come Stein, Grüber, Chéreau, Mnouchkine, hanno dato inizio in quegli anni a un radicale rinnovamento della scena europea. La ricerca ronconiana, pur rimanendo fedele a quell’atmosfera culturale, si è poi continuamente rinnovata, dialogando incessantemente con i propri tempi a tal punto che non è facile ricostruire un percorso così complesso, fittamente ramificato, ma coerente e unitario nel profondo.
Riassumere con poche parole alcuni campi d’azione in cui crediamo consista la sua eredità può aiutarci a elaborare questo lutto culturale. Lo faremo in nove punti.

1. L’enciclopedismo. Ronconi ha praticamente messo in scena tutto. Tranne qualche drammaturgo contemporaneo (Beckett), nessuno è sfuggito al suo bisturi vivisezionante. Negli ultimi anni ha recuperato persino autori come Pirandello o Brecht nei confronti dei quali aveva in passato preso le distanze. E non ha solamente diretto un numero sterminato di autori classici o contemporanei (da Eschilo a Stefano Massini), ma, in Italia, ha fatto conoscere i più grandi scrittori della letteratura austroungarica (Hofmannstahl, Schnitzler, Kraus, Broch), la drammaturgia barocca (Andreini) o testi minori di autori solitamente frequentati in pochi capolavori (si pensi alla Serva amorosa di Carlo Goldoni). Chi conosceva in Italia Ignorabimus di Arno Holz, prima che Luca Ronconi decidesse di rappresentarlo a Prato nel 1986 con uno spettacolo fiume dalla durata di 12 ore?

2. Lo spazio ridisegnato. A partire dall’Orlando Furioso (adattato da Edoardo Sanguineti) del 1969, Luca Ronconi riscrive il rapporto tra l’attore e lo spettatore. Lo spettacolo esplode in spazi non convenzionali: la Chiesa di San Niccolò a Spoleto, Piazza Duomo a Milano. Negli Ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus si serve di uno spazio industriale, l’ex Sala Presse del Lingotto di Torino (nel 1990, prima dei lavori di ristrutturazione), per ricostruire la Vienna d’inizio secolo e il fronte bellico della Grande Guerra. In altri ribalta semplicemente il rapporto usuale: in Verso Peer Gynt (1995) lo spettatore siede sul palcoscenico del Teatro Centrale di Roma, mentre gli attori recitano nella platea e nella galleria. Per Das Kätchen von Heilbronn di Heinrich von Kleist, nel 1972, sul Lago di Zurigo, era andato anche più in là, collocando gli spettatori su zattere (ma le recite all’aperto furono poi vietate per motivi di sicurezza). Nelle Baccanti di Prato del 1978, Marisa Fabbri, che interpretava tutti i ruoli del testo per 24 spettatori, li conduceva per le sale dell’Istituto Magnolfi di Prato: ogni sezione della tragedia aveva una stanza deputata, ritornare in un luogo voleva dire trovarlo mutato con un incredibile effetto di disorientamento.

3. La simultaneità. Tutto era cominciato ancora una volta con l’Orlando Furioso e con XX de la Roue di Rodolfo Wilcock (Parigi, 1971). Negli Ultimi giorni dell’umanità l’azione si moltiplicava in più palcoscenici, che erano agiti contemporaneamente: lo spettatore era libero di scegliere il percorso che desiderava, perdendosi ora tra le strade di Vienna, ora entrando nei salotti borghesi, e poi nelle stazioni, al fronte, in fondo alle trincee… I momenti più significativi erano però uguali per tutti: l’Ottimista (Luciano Virgilio) e il Pessimista (Massimo De Francovich) scorrevano lungo la navata centrale sopra alti carrelli, la voce amplificata a commentare l’azione, mentre la vita ferveva lungo il Ring di Vienna e i cannoni sparavano. La simultaneità, una delle proposte delle avanguardie futuriste d’inizio secolo, era stata tradotta in realtà. Nella società dello zapping e della comunicazione continuamente frammentata, diventava paradossalmente uno spazio conquistato di libertà.

4. La terza persona. Al Teatro Argentina di Roma (dov’è direttore artistico dal 1994 al 1998), la “voglia di raccontare storie” (Quadri) lo spinge a mettere in scena Quel pasticciaccio brutto di via Merulana di Carlo Emilio Gadda (1994) e I Fratelli Karamazov di Dostoevskji (1998), mantenendo la parte narrativa. L’attore è di conseguenza invitato a passare dai passi descrittivo o narrativi in terza persona a quelli in prima persona dei dialoghi. Questa tecnica ha avuto una grande fortuna, ma difficilmente è applicata con la precisione chirurgica del Maestro, che non ha smesso di applicarla. La Lehman Trilogy di Stefano Massini, attualmente al Piccolo Grassi di Milano, è un testo che la presuppone.

5. La recitazione spezzata. La recitazione ronconiana non è naturalistica. La frase è continuamente spezzata, le preposizioni e gli aggettivi sono staccati dai loro sostantivi da lunghissime pause, veri baratri, lo stesso accento melodico della frase subisce continui spostamenti. Claudio Longhi, per spiegare questa recitazione, ricorre a studi di psichiatria (Ludwig Binswanger) o alle Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber, ma troppo spesso si dimentica che essa affonda proprio nel metodo mimico di Orazio Costa, il maestro riconosciuto, e nelle sue lezioni di recitazione, attente al valore fonico, semantico e simbolico di ogni singola parola, sia pure declinate al suono della nevrosi. Ovviamente è facile fare ironia su questo modo di recitare, soprattutto se si prende come esempio il risultato di alcuni modesti imitatori. Ma se facciamo riferimento ai grandi interpreti il discorso cambia. Non si dimentichi che Luca Ronconi è cresciuto accanto ad alcuni suoi attori (Marisa Fabbri, Anna Maria Guarnieri, Massimo De Francovich), costruendo con essi la sua tecnica, che ha formato alcuni dei grandissimi di oggi (Massimo Popolizio, Galatea Ranzi, Maria Paiato) e che recentemente ha presentato sulla scena due ottime promesse come Fabrizio Falco e Lucrezia Guidone.

6. La formazione. Anche se più volte ha negato di avere un metodo, sin dal 1966, Luca Ronconi si è dedicato all’insegnamento (Accademia d’Arte drammatica Silvio D’Amico di Roma). E in ogni stabile da lui diretto ha curato direttamente la scuola di recitazione, ritenendo contemporaneamente che la pratica del palcoscenico e la verifica con il pubblico fossero comunque prioritari. Con buona pace di quel laboratorio perenne che il teatro di ricerca ha più volte teorizzato… I ragazzi della Scuola del Piccolo di Milano (che ora prenderà il suo nome) ad esempio, sin dal primo anno sono assorbiti nelle produzioni importanti della stagione. Non solo, ma i saggi di fine corso sono stati dei veri e propri spettacoli, messi in cartellone e recensiti dalla critica, come i bellissimi Pasolini della Scuola dello Stabile di Torino (Pilade e Calderon,1993). Nel 2002 poi, con Roberta Carlotto, fonda il Laboratorio teatrale Santa Cristina (che di fatto coincide con la sua abitazione), dove sperimenta una nuova drammaturgia: il regista che con acribia filologica si piccava di non tagliare un testo, ora si diverte a destrutturarlo: Un altro gabbiano da Anton Cechov e In cerca d’autore. Studio sui “Sei personaggi” sono il prodotto più avanzato e interessante di questa ricerca.

 7. Il teatro onnivoro. Sulla scena, per Luca Ronconi, si può parlare di tutto: di economia (Lo specchio del diavolo di Giorgio Ruffolo, Torino, 2006) di bioetica (Bioetica. Dizionario per l’uso, sempre Torino, 2006), di filologia (L’antro delle ninfe da Omero e Porfirio, Ferrara 2007). A Torino, Roma, Milano il regista si è cimentato a rappresentare l’impossibile. L’assunto da cui parte è molto semplice. Non è vero che il teatro sia passato di moda, soppiantato dal cinema o dalla televisione. È vero il contrario: l’arte del teatro, per la sua flessibilità e infinita ricchezza, può divorare e digerire qualsiasi argomento e qualsiasi mezzo di comunicazione. Su un palcoscenico possiamo far vivere anche la sceneggiatura cinematografica di Nabokov rifiutata da Kubrick, Lolita. Una sceneggiatura (Milano 2001).

8. Lo spettacolo infinito. Mettendo in scena Infinities di John Barrows (2002, negli ex laboratori del Teatro alla Scala alla Bovisa di Milano) su cinque paradossi logici-matematici sul concetto d’infinito, Ronconi, strizzando l’occhio a Jorge Luis Borges, progetta lo spettacolo infinito. Lo spettatore, concluso il quinto e ultimo episodio, può ricominciare da capo: lo ritroverà mutato, altri attori, altre interpretazioni. Il grande sogno barocco di un teatro infinito, che potrebbe durare sempre, identificandosi con la vita dell’universo, si realizza (nella realtà, se ricordiamo bene, ci si accontentava di molto meno: Infinities poteva essere visto al massimo tre volte).

9. Il ruolo della memoria. Qualunque rappresentazione firmata da Ronconi, riuscita o meno che fosse, dalla durata fiume di 12 ore o potenzialmente infinita, esisteva già nell’attesa dello spettatore. Ognuno sapeva che avrebbe assistito, per usare una parola abusata, a un evento, che avrebbe partecipato a un’esperienza della conoscenza.

Il regista sosteneva però che il banco di prova di uno spettacolo fosse nella memoria, in quello che deposita nella coscienza dello spettatore. In questa rapida e affollata rassegna abbiamo ricordato alcune dirette esperienze personali, altre indirette, di molte abbiamo taciuto. Basti pensare alle incredibili regie musicali, che nella sua carriera tracciano un percorso parallelo, ma non secondario: il Viaggio a Reims di Rossini (Pesaro, 1984) o L’Anello del Nibelungo di Wagner (alla Scala di Milano nel 1974 e 1975, e completato al Maggio Musicale di Firenze tra il 1979 e il 1981).

E non abbiamo nominato le Tre sorelle di Anton Cechov (Torino, 1989), Strano interludio di Eugene O’ Neill (Torino, 1990) o La vita è sogno di Calderòn de la Barca (Milano, 2000), che ci sono particolarmente cari. E nemmeno il lavoro pluriennale sulla tragedia e la commedia greca, “il rito perduto”… Ma sarebbe stato davvero impossibile citare tutto. Il viaggio teatrale con Luca Ronconi ora è diventato viaggio nella memoria. Nella memoria attiva.

Ave atque vale, Maestro.