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Vita e morte in Tadeusz Kantor: intervista a Luigi Marinelli, Simone Fraschetti e Adriano Marenco in occasione de La casta morta al Teatro Trastevere.

La casta morta è andata di nuovo in scena al Teatro Trastevere di Roma, dal 28 febbraio al 5 marzo 2017, occasione per noi di Persinsala di ripercorrere quello che è stato un evento per il panorama teatrale romano, cioè il debutto di questa pièce nel 2015 (in memoria del centenario della nascita di Tadeusz Kantor), e insieme del lavoro che l’ha ispirata: La classe morta. Parleremo del maestro polacco con Luigi Marinelli, Professore ordinario di Lingua e Letteratura Polacca all’Università di Roma (nonché autore del soggetto e collaboratore di Kantor negli ultimi anni della sua vita), Simone Fraschetti (regista), e Adriano Marenco, drammaturgo e autore del testo.

Come è nata l’idea de La casta morta?
Luigi Marinelli: «Il titolo è nato con Michele Sganga, coautore del soggetto e delle musiche di scena. È un gioco di parole tra classe e casta, banale ma che funzionava. I vecchietti de La classe morta non potrebbero, invece che sedere in una classe, sedere in parlamento?».

Riteneva che lo stile di scrittura di Adriano Marenco fosse consono all’operazione?
LM: «Ho pensato che il suo stile, che si muove continuamente tra il tragico e il grottesco, tra la farsa e il volgare, fosse adeguato all’idea di rappresentare la volgarità del potere. Adriano capta la realtà e riesce a scriverla in modi imprevisti, perfino profetici. Certe sue intuizioni nel testo hanno precorso quesa “fascistizzazione” della politica, ora in atto nel mondo».

Nel vostro lavoro non c’è una linearità narrativa. Gli attori sono usati come oggetti, anche il testo è un oggetto tra gli altri, come i suoni, o la musica. Dà un senso di spaesamento estremo, insieme ad una grande fascinazione. Era questo un effetto cercato?
Simone Fraschetti: «Il testo di Adriano è deliberatamente frammentario nel senso stilistico. Lo spettatore non ha la sensazione di una trama nel senso classico. Ha delle immagini, delle presenze che guadagnano il loro turno e si esprimono. Questi parlamentari si comportano come un branco di predatori, disposti a tutto, anche ad azzannarsi tra di loro».
Adriano Marenco: «Kantor ha scritto La classe morta basandosi su un testo di Stanisław Witkiewicz: Neoplasio cervelli . Ho scritto il testo lavorando sia su Kantor che su Witkiewicz, come una sorta di superfetazione di un testo originario. Non credo sia necessario cercare una trama precisa, un climax che porti all’happy ending. Si tratta piuttosto di fotografie interiori della realtà al rango più basso; sono flash della “banalità del male”».
LM: «Un climax forse c’è, ed è la scena corale in cui questi individui cominciano a navigare nello Stige, accompagnati da un testo di Kantor tratto dal suo scritto Salvare dall’oblio, nel quale individua cosa ci sia da salvare nella Storia, ossia la storia con la “s” minuscola, le storie individuali dei piccoli individui. Ci si chiede: qual è il senso della politica? Qual è il senso della Storia? È una bellissima scena onirica».

Vita e morte per Kantor viaggiano e si toccano?
LM: «C’è un gioco sulla morte che, in realtà, se ripensata dal punto di vista del suo contrario, cioè della vita, può dare il senso alla vita: la morte fa parte della vita, come Kantor pensava profondamente».

Quanto è politico in questo senso La casta morta?
AM: «Il teatro se non è politica non è. Noi insegnamo, scriviamo, traduciamo, facciamo teatro perché vogliamo renderci migliori, e rendere migliori le persone, quindi fare politica».
LM: «Si tratta di un’idea nobile della politica, intesa come il nostro agire quotidiano, non quella del nostro parlamento. È la polis. Simone diceva che abbiamo un branco di predatori. giustificati dalla loro stessa fame. È un giudizio definitivo su quella che è la politica oggi nel mondo, non solo in Italia».

Kantor ha iniziato il suo lavoro artistico durante il nazismo, creando un teatro clandestino. Il concetto di teatro clandestino è valido ancora oggi, nelle nostre faticose democrazie?
SF: «Kantor riusciva a fare teatro malgrado la Polonia occupata. Andavano clandestinamente in scena in appartamenti o in cantine, rischiando insieme al loro pubblico. Oggi il teatro è clandestino sì, ma in un altro senso, quello di un’operazione culturale seguita da pochi. Ci viene da chiederci: per chi lo stiamo facendo, oltre che per noi?».
LM: «In Kantor c’era l’oppressione nazista, e dopo quella comunista, tanto che ha lavorato fino al 1975 in una cantina con cinquanta posti. Era malvisto. Certo, oggi emergere è difficile in maniera diversa, perché diventi un numero in una massa non qualificata. Però si parte oggi da una contraddizione profonda, cioè tra il fare arte e l’aver successo, che sono due cose completamente diverse. Nel momento in cui queste cose si uniscono per un puro caso, va bene, ma nel momento in cui non si uniranno mai, mi permetto di dire da non artista: chi se ne frega! Il fine resta quello di comunicare, foss’anche a due persone, un messaggio che cambia l’esistenza».

Kantor diceva che l’opera d’arte è un contenuto che dovrebbe scoppiare.
LM: ««Questa cosa nel teatro di oggi la incontro veramente poco, perché tutti pensano a quella cosa maledetta che è la morte dell’arte, cioè il successo. A me pare sipossa dire che un pioniere (involontario?) della confusione attuale tra il concetto di “arte”e quello di “successo” sia stato Andy Warhol con la pop-art (che non a caso Kantor non sopportava). Di lì ai talent shows il passo forse era inevitabile».

Lo slogan era: «Tutti possiamo essere famosi per cinque minuti».
LM: ««Ha falsamente massificato le possibilità dell’arte. Mentre l’arte è e resta un fatto d’èlite, nel senso che non cerca un riconoscimento di massa, non si rivolge a “tutti”, ma a “ciascuno”».
AM: «Il potere è diventato talmente scaltro, che ha smesso di essere un nemico, sopratutto nell’arte. Oggi uno può dire qualsiasi cosa, nessuno ti censurerà, e tu finirai nel dimenticatoio. Dovremmo essere liberi ma abbiamo perso l’afflato a cercare di esserlo veramente».
SF: «Forse per gli artisti oggi non c’è un’oppressione diretta, forse c’è un’idea che coltivi insieme ad altri quattro gatti, e tenti di comunicare col teatro ad altre persone, che semplicemente non rispondono più. Perché? Forse il pubblico ha smesso di desiderare, sentono di avere tutto, quindi si sentono a posto. Ma quanto si è disposti come artisti a soffrire per mantenere questa condizione?».

È a tale proposito che avete messo queste parole di Kantor nel testo? L’artista «è un uomo povero senza armi e senza difese, che ha scelto il suo posto faccia a faccia con la paura»
LM: «La paura è anche riferita al fatto che l’attore deve impersonare per necessità un “morto”. Il testo per esempio: è morto in sé se tu non lo vivifichi attraverso la rappresentazione. C’è questo rapporto continuo tra la vita e la morte che oggi è negato da un tipo di arte vitalistica, quella che va per la maggiore. Il mestiere dell’attore è principalmente questo, come dice Marenco citando Kantor, cioè “traghettare da una zona morta all’altra”. Se tu non vivifichi la tua vita con un pensiero di tipo artistico, il vero morto sei te».

I personaggi di potere de La casta morta, come Neoplasio, non sanno incarnare la propria mancanza, tanto da tenere sempre in moto una macchina di linguaggio notarile che paventa onnipotenze illusorie. Qual è il rapporto tra arte, vita e mancanza in Kantor?
LM: «Il discorso sulla mancanza è fondamentale sia sul piano politico che artistico. Era Kantor stesso a dire che l’arte nasce da una mancanza. Da bambino – diceva – si rese conto di cosa fosse l’arte quando ebbe modo di ritagliare delle torte di carta. Queste torte non si potevano mangiare, ed erano arte proprio perché mancava loro qualche cosa rispetto alla vita».

«È a prezzo dell’estraneità della morte che un oggetto d’arte può diventare tale» diceva Kantor.
LM: «Sì, perché la vita la puoi rappresentare solo attraverso il suo contrario, attraverso cioè la mancanza di vita, cioè la morte. La mancanza che viene sentita come qualcosa di negativo, è il senso dell’arte. In una società del benessere può risultare provocatorio dire certe cose. Oggi i più grandi artisti sono coloro che mettono in scena quella che Kantor chiamava la condizione del “rango più basso”: l’immigrazione, l’emarginazione…».
SF: «La paura di un parlamentare è quella di perdere il potere. Lo difendo, lo cavalco e mi ripropongo di restare dove sono. Nell’arte invece c’è il discorso della mancanza e del disagio. Si inizia a scrivere quando si percepisce questa mancanza. Un nostro collega attore diceva che “un giorno di felicità uccide una poesia”».
AM: «Quello che mi spinge a scrivere è la mancanza di giustizia, che mi viene da un senso politico e dell’arte molto radicato, cioè combattere per un bene superiore. Spero che nell’opera siamo riusciti a restituire questa tensione».

Credo vi siano ragioni bastevoli per accendere curiosità su un classico che continua a rappresentare quanto di profondamente umano vi sia in noi, oppresso dallo scorrere del tempo, da una continua esperienza di perdita, contro la quale credere di poter afferrare ogni oggetto e dominarlo. Il senso vivifico della morte, come Kantor ci ha insegnato, è costruire una fedeltà a se stessi intesi come “povera cosa”, fatta solo della nostra memoria, e della nostra paura. Tutto il resto è rissa nazionalpopolare, di cui il pubblico non troverà eco alcuna nel lavoro di questi artisti e studiosi di teatro.