Risus abundat in ore stultorum?

Al Teatro di Villa Torlonia, una serata all’insegna della comicità. Due eventi consecutivi, della durata di cinquanta minuti l’uno, ci hanno fatto sorridere e pensare. Il collettivo Nano Egidio, prima, e l’autore e attore Davide Grillo, poi, hanno esplorato con le loro performance diverse sfumature dello humour: dall’iperbole al volo pindarico, dall’ossimoro al nonsense, dall’ironia alla tragicommedia.

A teatro, è più facile far piangere o far ridere? La tragedia sembra godere, tradizionalmente, di uno statuto estetico più alto: secondo la celebre formulazione aristotelica, essa è “mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo di siffatte passioni” (Poetica, VI).

La tragedia scatena forti emozioni e, al tempo stesso, ne consente la catarsi. Il dolore acuisce l’intelligenza, estende la conoscenza (pathei mathos, canta il coro dell’Agamennone di Eschilo, nel suo inno a Zeus); “grande sapienza è grande tormento. Chi più sa, più soffre”, recita il Qohelet (1, 18), mettendo a nudo il nesso tra la necessità umana di sapere e la sua irrimediabile finitezza e fragilità. Con la modernità, i termini del rapporto non cambiano, anche se viene ottimisticamente proiettato verso l’Autocoscienza dell’Assoluto: non c’è progresso spirituale né sintesi speculativa – dichiara Hegel, con la consueta potenza – che non passi attraverso “la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo” (Fenomenologia dello spirito). Si può dire lo stesso del comico? Può la commedia, nelle sue disparatissime forme e gradazioni, vantare le stesse pretese in materia di sapienza, conoscenza, crescita spirituale? E poi, che cosa significa “ridere”? Sorridere, ridacchiare, sogghignare, burlarsi, beffarsi, irridere, deridere, prendersi gioco, schernire, sbellicarsi, infischiarsene, rilucere, come quando si dice “gli ridono gli occhi”.

Il comico è maneggiato spesso con disagio dalle sette arti canoniche, teatro compreso, mentre è affrontato con maggiore disinvoltura dalle due più contemporanee del cinema e del fumetto. L’effetto ricercato, e magari anche conseguito, il riso (ma quale?), non sempre si accompagna alla padronanza formale e alla finezza dei contenuti, al giusto equilibrio tra ritmo e intensità, mancando il difficile bersaglio dell’oraziana aurea mediocritas (nel senso positivo di “aurea medietà”) tra accelerazione orizzontale e sviluppo verticale.
I due spettacoli andati in scena sul palcoscenico dell’ottocentesco teatro di Villa Torlonia si sono cimentati nell’arduo compito, con esiti differenti e differenziati.

Luisa, uno sguardo Oltralpe, è uno “sceneggiato teatrale”, così viene definito dalla nota di presentazione, ideato e recitato da Nano Egidio, un “collettivo di teatro e di eventualità” formato da Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti, dedito da una decina di anni alla sperimentazione di drammaturgie surreali e di forme di comicità trasversale. In questa telenovela contemporanea, la nobildonna decaduta Luisa Winghfield è segretamente innamorata di Woody Baltimora, un umile pupazzo contadino: il loro bizzarro amore, messo a dura prova da un’irriducibile disparità di classe, viene ostacolato in tutti i modi dal padre di lei, che l’aveva promessa in sposa al ricco cugino, il Tar del Lazio. Attori e fantocci, vagamente somiglianti ai protagonisti del Muppetshow, la celebre trasmissione televisiva statunitense ideata da Jim Henson nella seconda metà degli anni Settanta, si alternano sulla scena, dando vita a sketch iperbolici e kafkiani, scenette che parodiano le soap, estrose trovate da avanspettacolo, pastiche – per la verità, non sempre convincenti – di codici e di gerghi linguistici. L’amore impossibile tra una donna svagata e un semidelirante pupazzo diviene il motore di una commedia che non ha né capo né coda: la sua forza non dipende dall’inverosimiglianza della trama, che il pubblico riesce momentaneamente ad accettare grazie a una moderata sospensione dell’incredulità, ma dal frequente ricorso a giochi di parole, salti (il)logici, associazioni libere che divertono senza far ridere, che sorprendono senza scalfire l’armatura categoriale dello spettatore. Il comico che si balocca col nonsense rinuncia a diventare umorismo; l’avvertimento del contrario non apre le porte al sentimento del contrario; l’assurdo non spalanca la possibilità dell’in-audito, ma si ripiega – peraltro legittimamente – su se stesso: l’accelerazione senza sviluppo tutt’al più fa sorridere, irridere, deridere, confermando però lo status quo.

Davide Grillo, autore di racconti e assoli teatrali, membro fondatore del collettivo Sgombro, ha portato in scena Il tempo stinge: si tratta di una raccolta di monologhi che tematizzano, in maniera “umoristica” e stimolante, l’ineluttabile trascorrere del tempo. Una delicata empatia si instaura tra l’attore e il pubblico, che non viene affrontato direttamente, ma immesso lateralmente, come di sbieco, nel suo universo di scrittura. Una figura minuta, dalla postura esitante e dalla faccia smagata, legge i suoi monologhi, alternandoli con aneddoti e battute – dal sapore ironicamente autodistruttivo – che danno ritmo allo spettacolo, decisamente denso nella sua linearità.

Che il tempo passi, non è certo una novità: si potrebbe dire, scomodando Sant’Agostino, che l’uomo vive sempre nel presente, visto che il passato e il futuro a rigore non esistono: del primo abbiamo memoria e del secondo avvertiamo l’incombere nel presente. Se c’è solo il presente, dunque, perché il tempo stinge? Il presente stesso tende a non essere e l’«adesso» è già passato. La nascita e la morte sono due facce della stessa medaglia: “L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire”, sentenzia Heidegger con una certa gravità. Con la nascita, si dischiude per ognuno di noi la possibilità – certa ma indeterminata – della morte. Davide Grillo, in fondo, nei suoi felici assoli drammatici ci dice lo stesso, con simpatica leggerezza, ma non per questo meno seriamente. Aurea mediocritas di accelerazione orizzontale e sviluppo verticale: il bersaglio dell’umorismo risulta centrato.

Esilarante il monologo antifascista; arguto quello sull’eutanasia; appassionate le riflessioni sulla concezione occidentale del tempo come incessante progresso contrapposta alla visione ciclica e circolare, largamente frequentata dai presocratici, dagli stoici, dalle religioni orientali, da Nietzsche, in epoca più recente. L’assunto “filosofico” di fondo, sempre rivelato tra le righe con garbato sarcasmo, è che l’esistenza è un inesorabile declino, un lento tramonto, un fatale deterioramento, durante il quale tuttavia accade una formidabile varietà di eventi interessanti, di possibilità che si aprono e che si chiudono, di progetti mancati.

Il mito ultraliberista della crescita illimitata, dell’autoperfezionamento incessante, dell’attivismo felice viene decostruito da Davide Grillo, che dell’oscillazione tra il sì e il no, dell’attesa strategica e del fallimento fa invece l’elogio, senza eccessi, per nutrire la vita e non per depauperarla. Ci pare di sentir riecheggiare il celebre motto di Beckett: “Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better” (dal racconto breve Worstward Ho, 1983, tradotto in italiano da Frasca – non senza qualche difficoltà di resa – con Peggio tutta), liberato però dall’incrostazione efficientista con cui è stato talvolta interpretato, per cui si deve sempre ricominciare per migliorare o per raggiungere vette più alte.

La voce pensosa, le pause, le captatio benevolentiae nei confronti del pubblico, chiamato a sorridere della sua temperata autodemolizione, fanno il resto. Insieme ad una non trascurabile tenuta di scrittura.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Torlonia
Via Lazzaro Spallanzani, 1A, Roma
Luisa, uno sguardo Oltralpe. Telenovela con attori, pupazzi e umorismo
di e con Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti

Il tempo stinge. Brevi monologhi contro l’affanno
di e con Davide Grillo
luci Camila Chiozza