Ritratti d’autore

A margine della presentazione della stagione 2015/16 del teatro PimOff, che celebra il decimo anno di vita attraverso l’edizione di un libro, Persinsala intervista la direttrice artistica Maria Pietroleonardo.

Era il 1958, quando a New York si iniziò a utilizzare l’espressione Off-Broadway (dai novantanove ai cinquecento posti) e poi Off-Off-Broadway (meno di novantanove posti), inaugurando un’esperienza teatrale fuori dai canali istituzionali capace di rappresentare un chiaro esempio di militanza e di indagine sperimentale. Tempi ormai andati, anche se, andando verso Abbiategrasso, è possibile incrociare la sede del teatro PimOff, un nome che rappresenta di per sé tutto un programma. Entrando si scopre che qui esiste ancora il teatro come ricerca, un luogo che restituisce atmosfere, armonie e spazi intrecciati e polifonici, dove si ha ancora l’impressione che l’arte dialoghi con l’artigianato. Ed è in questo contesto che è avvenuta la presentazione del programma di stagione, poi seguita dall’interessante performance del pianista Alessandro Sironi. Ne abbiamo approfittato per intervistare Maria Pietroleonardo.

Come significano i dieci anni del Pim Off, teatro di cui lei è stata e continua a essere mecenate e del quale, negli ultimi due anni, ha assunto la direttrizione artistica?
Maria Pietroleonardo: «Ora che sono passati mi sento bene. Ci sono state chiaramente delle difficoltà, come in una famiglia, dei nodi da dover mettere a posto, ma arrivati fino a qui sono contenta di quello che è trascorso; dei vari sì e no ricevuti nella vita e dei direttori che sono passati di qui».

Quale era la sua funzione prima?
MP: «Vegliavo. Ero sempre dietro alle quinte. Quando dai il compito a un direttore devi anche lasciarlo libero, di conseguenza non potevo mettere la mia bocca. Devo dire che tutti i direttori passati di qui hanno cercato di rispettare una mia visione e quando c’era da scegliere si collaborava. La scelta della programmazione l’ho sempre seguita, attivamente, altrimenti non avrei nemmeno messo su un teatro. C’è sempre stata dietro alla nascita del Pim una forte passione condivisa».

Com’è nata l’idea di far sorgere il teatro Pim?
MP: «L’idea è sorta molto probabilmente per una passione nascosta, ma è nata in seguito a un esaurimento nervoso, da un vero e proprio bisogno di distrarre la mente. Il caso ha voluto che, ormai 23 anni fa, trovassi in un libro la pubblicità dell’Umanitaria, una scuola per tutti, che si trovava dietro il Palazzo di Giustizia. Lì si faceva qualunque tipo di corsi e io mi sono iscritta praticamente a tutti».

Quindi molto precedente alla fondazione del teatro PimOff?
MP: «Sì. All’Umanitaria ho fatto di tutto, pittura, acquarello, antropologia, filosofia, fino a che con il maestro argentino Riccardo Fux, che ne conduceva il corso, ho aperto una finestra sul mondo del teatro. Un mondo che ho riconosciuto essere il mio, ma che, dopo lunghe esperienze sul campo, ho deciso di lasciare perché a casa c’era bisogno di me. Dopo un po’ di tempo, per fortuna, mio marito ha capito che mi stavo chiudendo e mi ha invitata a riprendere da dove avevo lasciato. Allora ho, prima, aperto uno spazio in via Cezanne dove gli artisti potessero provare, poi, avendo bisogno di un contatto più diretto con artisti e spazi teatrali, grazie ancora una volta all’aiuto di mio marito, ho finalmente costruito il mio teatro».

Come è cambiata, nel corso di questi anni, il modo di intendere e di fare teatro?
MP: «Questa è una nota dolente. Prima c’era la passione, il desiderio di fare e di conoscere. Poi, però, qualcosa è cambiato qualcosa, quel tipo di realtà piano piano è andata scomparendo, lasciando posto al primato del denaro e del potere».

Eppure da un punto di vista politico uno potrebbe dire che la situazione sia rimasta analoga, perché ritiene che la situazione di oggi sia così cambiata in peggio?
MP: «Posso dire, a scapito di sembrare mia nonna o mia madre, che erano altri tempi. Un’altra generazione e un altro tipo di educazione. A quel tempo il teatro non si basava scemplicemente sul rapporto tra paga e ore lavorative. Si sentiva un autentico bisogno di fare teatro. Vi si rimaneva in ogni momento, si credeva fortemente in quello che si stava facendo ed è qualcosa che succedeva anche altrove. Non è solo la mia personale esperienza a farmi dire che il mondo degli teatro era ben diverso da oggi».

In che modo oggi, per esempio in termini di propositività, sono simili o diversi i giovani che si impegnano in questo mestiere?
MP: «Le realtà migliori risiedono nei paesi piccoli, nelle città, invece, i giovani si formano in grandi teatri, con grandi registi, il che determina probabilmente la forte ambizione di sentirsi subito arrivati. Quando li invitiamo a venire da noi, spesso la prima domanda chiedono come prima domanda quanto pubblico ci sia. La risposta è, ovviamente, che nessuno può saperlo prima, che bisogna meritarselo, il pubblico».

Come seleziona gli spettacoli e i programmi?
MP: «Ormai ho più esperienza di un tempo. Prima di tutto vado in giro a vedere gli spettacoli, poi insieme al mio staff scegliamo. Ciò che mi interessa è conoscere, vedere persone, compagnie e progetti. Solo dopo essermi fatta un’idea generale scelgo cosa possa andar bene anche in base allo stile del Pim. Essendo un teatro privato, abbiamo ampia libertà d’azione. Certo, esserlo ha anche degli aspetti negativi ma, di certo, non siamo soggetti o forzati a scambi doverosi. Facciamo scelte libere.

Non ha l’ambizione o la speranza che il teatro possa sostenersi da solo, senza mecenati?
MP: «Purtroppo non è possibile andare avanti se non si ha alle spalle qualcuno che aiuta e sostenta, le spese di mantenimento dello stabile sono molto alte e l’incasso dei novantanove posti del nostro spazio non collima mai con le uscite. Un po’ per la politica di biglietti interi a prezzi bassi, un po’ perché, per vari motivi (convenzioni, età, etc..), i ridotti sono sempre i più venduti. Cerchiamo di dare almeno un valore al lavoro svolto, anche se il pubblico dovrebbe sforzarsi di più per comprendere gli sforzi fatti per mantenere vivo un teatro».

Qual è il vostro pubblico di riferimento e come reagisce alla vostra programmazione?
MP: «La nuova generazione è molto presa dalla tecnologia e, al limite, dai musical. Rispetto ai teatri in centro, il Pim Off è più complicato da raggiungere ed essendo in periferia ne dobbiamo pagare in un certo senso lo scotto. Lo paghiamo anche nei confronti delle scuole, anche se abbiamo iniziato l’anno scorso la collaborazione con due istituti milanesi. Abbiamo prima portato da loro un nostro attore-regista e il critico Maddalena Giovannelli perché iniziassero a parlare di teatro e mostrarlo per quello che è, un lavoro di talento, dedizione e impegno. Gli studenti hanno preparato un testo da cui abbiamo ricavato il materiale per un saggio. Devo riconoscere che il riscontro è stato positivo, gli studenti sono rimasti sono stati contenti, qualche timido ha smesso di esserlo e si sono divertiti a vedere una nostra produzione. Hanno fatto domande inerenti che ci hanno sorpreso. Sarà difficile continuare, ma spero anche quest’anno di poter portare avanti questo progetto».

Come è nata l’idea del libro Dieci anni di Pim:2005-2015 teatro e arti di uno spazio Off che avete presentato questa sera?
MP: «L’idea del libro è nata come una testimonianza di cui avevo bisogno. Si è trattato di raccontare la storia di un gruppo che è nato in e con questo teatro».

Durante la presentazione della stagione ha detto Resistere nelle difficoltà. Partendo da questa frase, le chiedo quale messaggo può dare a chi, oggi, crede e fa teatro?
MP: «A chi fa teatro suggerisco di resistere, di avere la testa dura anche se altri poveranno a scoraggiarlo alle prime difficoltà. Si deve andare avanti perché si crede si crede in qualcosa e io stessa ne sono testimonianza. Resistiamo perchè il teatro è un valore, è storia, testimonianza e storia del mondo, lo è in qualunque altro posto del mondo, senza distinzione alcuna».