Ritratti d’autore

Il suo nuovo spettacolo, Un quaderno per l’inverno, ha debuttato il 7 marzo al Teatro Fabbricone di Prato. Testo di Armando Pirozzi, protagonisti Alberto Astorri e Luca Zacchini. Nelle note di sala si parla di sparizione del regista, del riportare al centro del teatro la storia e gli attori. Incuriositi dalle sue affermazioni, abbiamo deciso di chiedere a Massimiliano Civica di incontrarci a fine spettacolo, e raccontarci meglio i particolari di questa nuova fase della sua avventura artistica.

Che genere di lavoro registico e attorale avete fatto, avendo deciso di percorrere la strada dell’immedesimazione del pubblico in una storia?
Massimiliano Civica: «In questo spettacolo fondamentalmente il pubblico si trova davanti a una storia, che inizia in un modo e finisce in un’altro attraverso dei cambi e delle piccole rivoluzioni. In scena si vedono solo due esseri umani nella loro purezza perché non sono protetti da niente: niente luci, niente scene, niente maschere, niente effetti speciali. Il pubblico non viene bombardato. I momenti di sospensione o transizione, quando per esempio tra un quadro e l’altro c’è un passaggio di tempo, continuano secondo me a rimanere nella storia perché si tratta semplicemente di una convenzione, di un gioco teatrale. Le convenzioni però non hanno mai impedito l’immedesimazione, che è un fatto più complesso del cadere in uno stato di trance senza controllo mentale. Penso che quegli elementi non disturbino e, anzi, siano una sorta di vuoto in cui tu (lo spettatore) puoi interrogarti sulla natura della recitazione, sulla natura dell’attore».

Questo, quindi, è uno spettacolo che non bombarda il pubblico: è una caratteristica della sua poetica?
MC: «Io credo che bisogna uscire dagli ambiti ristretti della ricerca. Bisogna andare verso un teatro popolare d’arte in cui tutti e due i termini sono necessari, cioè il popolare e l’arte. C’era un grandissimo critico, che di cognome faceva Rocca, che diceva che lo spettacolo perfetto è quello che piace sia a me, professore universitario, sia al mio portiere. Teatro popolare d’arte significa che tu chiedi un piccolo sforzo al pubblico per venire verso l’arte – uno sforzo di attenzione e ascolto – e tu fai un piccolo sforzo per andare verso di lui. Se il racconto arriva al pubblico, che rimane partecipe al rito che gli proponiamo, anche se mancano effetti di luce, costumi, musiche, scene, allora significa che il nostro tentativo sta andando nella direzione giusta. Siamo abituati dai mezzi di comunicazione a essere aggrediti dagli stimoli; i lavori teatrali, per paura di questa situazione, si muovono sempre più verso lo “spettacolo”. Da una parte c’è il grande spettacolo di stampo ottocentesco; oppure, dall’altra, ci sono delle aggressioni cinestetiche, fatte da una quantità di musiche incredibili, di stimoli, e tutto sempre a un livello sparato. Non siamo abituati a un lavoro che ha una sua evoluzione, un suo ritmo interno fatto di silenzi, di inquietudine, di rabbia, di distensione».

Se ho capito bene: in questo avvicinamento del teatro darte al pubblico, si offre qualcosa a cui il pubblico possa aggrapparsi meglio, la storia appunto.
MC: «Io credo che ci sia bisogno delle storie. Per vari fatti culturali, politici, e soprattutto per il fatto che oggi non si crede più a niente, si tende a ripetere che non si possa raccontare una storia. Oggi se si crede in qualcosa si è naïf, si è degli idioti. Io credo invece nella possibilità di tornare al racconto. E attenzione, raccontare non vuol dire essere banali. Basta pensare al monologo dell’Amleto: l’essere o non essere è in sé una storia. Ci sono tantissime interpretazioni, le più disparate. Ma la storia rimane, ed è la storia che ci permette di entrare in contatto fra di noi. Noi raccontiamo la nostra storia sotto forma di racconto, e abbiamo memoria perché drammatizziamo il nostro passato. Tornare alle storie e mettere in primo piano gli attori è una direzione per offrire al pubblico, che già va a teatro, operazioni che mirano a un teatro popolare d’arte. Perché il teatro è minoritario, ed è opportuno lasciare fuori tutti quelli che non se ne interessano. Come diceva Chiaromonte (Nicola, appassionato di filosofia e teatro, fondò Tempo presente con Ignazio Silone, n.d.g.), il teatro è per chi lo ama, non è per tutti. Credo che sia qualcosa di doveroso, altrimenti siamo fuori dal mondo. O siamo nella ricerca che è un mondo che funziona di per sé, o in una pseudo tradizione che però è abbastanza morta».

Rispetto alle altre regie, ha scritto nelle sue note che, in questo lavoro, ha cercato di fare un passo verso lo sparire. In che senso?
MC: «Quando uno spettacolo va bene tu stai con gli attori, e molto difficilmente, escludendo quei punti di transizione fra un quadro e l’altro, vedi una scelta registica, molto difficilmente ti capita di dire che bella regia, o che bel testo. Sono riflessioni che vengono dopo, se ti vengono. Il teatro per me non è un’arte, ma è un rito. Il discorso si ha tra prodotto e ritualità: se vuoi il prodotto devi impostarlo in una certa maniera. Se, al contrario, come regista vuoi un’autorialità, le scelte sono diverse. Se pensi di essere un artista, che è una sciocchezza clamorosa, è chiaro che devi inchiavardare gli attori, trasformarli in marionette, mettere la musica, devi stabilire tutto. In questo modo hai uno spettacolo che si ripete identico tutte le sere, ma a quel punto è come fare cinema, in cui il controllo autoriale è totale. Perché se tu non accetti l’elemento perturbante dell’essere umano, il fatto che gli attori possono compiere scelte sbagliate e che, quindi, una sera può andare male e qualcuno scriverà male perché ha visto quella sera e non un’altra, stai tradendo il teatro».

In un’intervista precedente ha affermato che le piace lavorare con attori che siano anche artisti perché hanno le loro competenze e portano il loro contributo mentre lei contraccambia con le sue, effettuando una sorta di scambio.
C.: «Pensate che Alberto e Luca (Astorri e Zacchini, n.d.g.) decidono tutti i ritmi. Ogni sera fanno tantissimi micromovimenti che non sono stabiliti, scelgono le pause, l’intensità del volume, della recitazione. Questo significa che, all’istante, montano una storia come se fossero dei registi, usando il loro corpo davanti al pubblico. Per fare questo si ha bisogno necessariamente di due artisti, perché se si lavora con un attore normale, se non gli si dice fino a quanto contare, se e come girare la testa, quale intonazione fare o che ritmo tenere, non sa cosa fare. Qui, invece, si è in presenza di attori che anche in base al pubblico scelgono che fare. Sono artisti perché leggono all’istante la situazione della sala».

Tornando all’idea di scambio fra attori e regista, il regista Civica cosa ha portato agli attori?
MC: «È un po’ difficile da dire. Si prova, si parla del testo, si parla delle emozioni, si dà la struttura dei movimenti, si stabilisce lo spazio. È un lavoro in sé, ed è anche complesso, è fatto di buonsenso, per cui tu, nel tempo delle prove (che deve essere necessariamente un tempo lungo), crei insieme agli attori e ad Armando (Pirozzi, l’autore del testo, n.d.g.) quelle competenze che gli permettono poi di giocare la partita. In fondo il regista è come un allenatore: tu prepari tutti gli schemi, hai una filosofia di gioco – se vogliamo definirla così. Poi l’attore se ne impossessa e diventa lui stesso regista della sua performance, naturalmente una volta decise insieme alcune impostazioni».

Quali sono, quindi, la filosofia dell’allenatore e le competenze che, nel corso delle prove, cercate di mettere a punto e di sviluppare?
MC: «Prima di tutto una sensibilità verso quello che si sta raccontando, e con ciò torniamo a quel discorso dell’immedesimazione. Nell’interprete, storia ed evoluzione del personaggio e onniscienza dell’attore vanno di pari passo. L’attore sente, è immedesimato nel personaggio, ma controlla anche il racconto. Quindi tu (regista) hai bisogno di tempo per dare agli attori la tranquillità di essere in grado di gestire il rito, un rito con tempi che, oltretutto, cambiano con l’ascolto del pubblico. Il lavoro consiste nel dare autonomia e sicurezza agli attori perché facciano il loro lavoro. Io non sopporto l’attore che per poter fare il suo lavoro, ad esempio, guarda in quinta il regista per sapere se è andato bene; o quello che a fine spettacolo non sa se è andata bene o male e viene a chiederlo a te. Se non lo sai te che lo gestisci, figurati io. Il nostro è un confronto alla pari in cui ognuno è l’autore della parte che gli compete».

Non ho chiaro questo punto, qual è la parte che compete al regista? L’allenamento, il pre?
MC: «Banalmente, io imposto i movimenti, scelgo la scena, lo spazio, curo la drammaturgia scenica, ma questa è una parte che può fare chiunque. Quello che tu trasmetti è piuttosto un amore per quello che si sta facendo, il senso del perché si fa un certo testo, una certa cosa, e trasmetti la fiducia, il fatto che tu ti fidi di queste persone. Poi il tuo lavoro è quello di essere uno spettatore esigente. Il regista in fondo ha un unico grande maestro, come diceva Peter Brook (noto regista britannico, n.d.g.), che è la noia. Gran parte del lavoro del regista è quello di essere uno spettatore esigente e attento che ogni giorno va alle prove facendo finta di non sapere niente di quello che vedrà e cercando di avere le reazioni che potrebbe avere lo spettatore normale, e che con spietatezza taglia tutto quello che annoia, o in cui c’è un calo di attenzione, o che è difficoltoso per l’attore, perché l’attore non può avere preoccupazioni o difficoltà mentre recita. Le prove servono per mettere tutte le persone a loro agio, non si può creare se non si sta bene. Il tuo compito come regista è togliere preoccupazioni, togliere problemi, capire come puoi andare incontro all’attore».

Sarà un successo, come si diceva nel Teatro all’Antica Italiana, sarà un incontro.
MC: «Metà spettacolo lo fa il pubblico, il pubblico è coautore dello spettacolo. Tu devi essere aperto, non devi mettere soglie di ingresso. Ma se lui non vuole entrare non avrai mai un grande spettacolo. Soprattutto nel caso di lavori come il nostro, in cui deve fare uno sforzo di ascolto e non è bombardato, non è schiacciato contro la poltrona. In simili situazioni bastano dieci persone un po’ distratte, ad esempio, che lo spettacolo sarà a un livello ma non a un altro. L’importante è che non ci sia soglia di ingresso, l’importante cioè è che lo spettatore, senza sapere nulla dello spettacolo, senza sapere chi siamo noi, senza conoscere la storia, sia in grado di poterla seguire, come avviene nel cinema. Non devi aver letto tutto Deleuze (Gilles Deleuze, filosofo francese che si è occupato anche di critica d’arte e cinematografica, n.d.g.) per capire un film. Tornando all’esempio di Amleto, non devi conoscerne tutte le critiche, per riuscire a capire l’interpretazione che il regista dà. Noi, ad esempio, non diamo spiegazioni. Ognuno vive a suo modo quello che viene detto, lo completa almeno per metà, vede con l’immaginazione. Tutto questo, secondo me, fa parte del teatro e non dello spettacolo».

Intendendo con spettacolo le messinscene eccessive, la scena, la musica, il regista che vuole essere autore?
MC: «Intendo lo spettacolo come prodotto. Questo lo dice chiaramente Morganti (Claudio Morganti, regista e attore, n.d.g.): se c’è teatro non c’è spettacolo, se c’è spettacolo non c’è teatro. Lo spettacolo in qualche modo è sempre ipodermico, è sempre una comunicazione unidirezionale. Qui si spera che non sia unidirezionale, ma che ci sia comunicazione nelle due direzioni. Il teatro è fragile, lo spettacolo è forte. Qualsiasi spettacolo è forte perché va avanti nonostante il pubblico. In fondo il pubblico si potrebbe addormentare perché c’è talmente tanto casino che nessuno se ne accorgerebbe. Qui qualsiasi sofferenza anche minima del pubblico ha un riverbero incredibile nel silenzio e nel nulla, così come un pubblico che ti segue ti manda una potenza incredibile. Il teatro ha un’energia più sottile, che però è anche più fragile».