Ritratti d’autore

Matthieu Pastore, classe 1989 e vincitore del premio Hystrio alla Vocazione 2012, è ora in scena al Teatro Litta con Titanic – The Great Disaster. Soliloquio marittimo per 2.201 personaggi e 3.177 cucchiaini, per la regia di Renato Sarti. E noi siamo andati a intervistarlo.

Come si è imbattuto in questo testo?
Matthieu Pastore: «Durante uno spettacolo per ragazzi al Centro Culturale Francese di Roma, una ragazza dell’amministrazione, sentendo che il mio cognome è Pastore, mi ha consigliato The Great Disaster di Patrick Kermann, dove il protagonista si chiama appunto Giovanni Pastore.
Io conoscevo l’autore perché avevo già letto La Masticazione dei Morti, dove tra l’altro troviamo sempre il filo conduttore della parola ridata ai morti.
Ho letto il testo e subito l’ho amato. Quindi l’ho tradotto e suggerito a Renato Sarti».

Che differenza c’è tra la morte di un lavatore di cucchiaini e un viaggiatore di prima classe?
MP: «Il passeggero di prima classe aveva le possibilità per salvarsi. La morte di un lavapiatti è anonima, non se ne parla sui giornali, magari se ne parla in famiglia o nel paese. Ma il Titanic era pieno di persone che non avevano avvisato della propria partenza, come nel caso di Giovanni Pastore. E non si parlerà più di queste morti.
Ad esempio c’è la storia molto bella di un signore di Nizza, sarto, divorziato e con due figli, che non può vedere perché con affidati alla madre. Il giorno di Pasqua li prende e si imbarca sul Titanic, anche lui senza avvisare nessuno, e con falsa identità. Il transatlantico affonda, lui muore, ma i figli, come la maggior parte dei bambini, sopravvivono e si ritrovano a New York con falsi nomi e senza genitori. Tramite un annuncio su Le Figaro, la madre, ancora a Nizza, viene a sapere di questi bambini smarriti a New York e fiduciosa del fatto che possano essere i suoi figli fa partire le indagini. Alla fine si scopre che sono effettivamente i suoi figli e parte alla volta di New York, a spese della White Star Line. Con un biglietto però di seconda classe, perché comunque era la moglie di un sarto.
Poi sempre parlando di morte, c’è anche il racconto della morte della nonna. Per Kermann la morte è il momento in cui l’Io sparisce, si dilegua dentro il Noi; l’Io diventa un possedimento altrui, collettivo. Questo penso che nell’ateismo sia il dramma più grande della morte».

Infatti Kermann parlava del teatro come luogo del rituale in cui i vivi tentano di parlare con i morti. Quanto si ritrova in questa frase e cos’è per lei il luogo teatrale?
MP: «Forse è il contrario, il luogo in cui i morti parlano con i vivi. Il teatro è il luogo in cui queste persone che si sono dileguate dentro al Noi tentano di riemergere attraverso la parola di una persona. Tutti i personaggi della nostra cultura possono riprendere corpo sul palcoscenico; il concetto di reincarnazione è la ritualità del luogo teatrale. L’attore non racconta solo cose sue, ma anche cose nostre, che fanno parte della nostra cultura, che è forse la cose più interessante del luogo teatrale».

La strage del Titanic come allegoria del nostro mondo, prossimo alla catastrofe. Quanto è vera questa affermazione?
MP: «È una perfetta allegoria. Dopo più di cento anni, il nostro mondo è ancora diviso in compartimenti stagni, classi sociali fortemente distinte.
Prossimo alla catastrofe. Non sono veggente, però ieri come oggi ci si fida ciecamente dei mezzi tecnologici messi a nostra disposizione. Il Titanic doveva essere inaffondabile, ma abbiamo visto tutti cosa è successo. Con questo non voglio sembrare contro il progresso tecnico, però a volte si può rivoltare contro».

Come si è preparato per rappresentare Giovanni Pastore?
MP: «Ho visto tanti film, e in particolare mi ha segnato molto Nuovomondo di Crialese. Parla di migranti siciliani, ma il sistema non cambia. Contadini di fine ‘800 che sognano un mondo fatto di denaro facile e tecnologia, che lasciano tutto per cercare la fortuna nelle città, per inseguire il sogno di una vita migliore, ma che alla fine rimangono delusi. Come succede ai migranti di oggi. Questa è una storia che riguarda anche me: il mio antenato Mariano Pastore è partito dalle montagne siciliane per scoprire un nuovo mondo, ma poi si è ritrovato in Tunisia.
Oltre ai film, insieme a Renato Sarti, abbiamo compiuto una ricerca storica molto approfondita, anche perché il testo contiene molti dati tecnici che era importante conoscere».

Ci racconta un aneddoto?
MP: «Il testo originale affronta bene il dialogo tra Francia e Italia all’inizio del secolo scorso, ed è interessante come questo testo fosse stato scritto per un italiano per una rappresentazione in lingua francese. Divertente come ora lo reciti un francese in lingua italiana.
Il testo parla anche della prima strage di migranti, quella di Aiges-Mortes, dove negli anni Novanta dell’800 lavoratori italiani sono stati uccisi perché accusati di rubare il lavoro ai francesi. Con modalità differenti, è quello che sta succedendo ancora oggi nei nostri paesi. La paura dello straniero che ci sta rubando il lavoro. Ma non è così. Cosa vuol dire essere straniero? Io stesso sono uno straniero, e in fondo lo siamo tutti. Io ora mi sento più italiano che francese, anche se l’accento mi tradisce».