Tragedia e melodramma in Matteo Domenico Varca

Matteo Domenico Varca, studente di liceo a Crotone, vince il premio l’Artigogolo, un concorso collegato al Doit festival 2018 di Roma, con una riscrittura ispirata alla Medea di Euripide.

L’aspetto sorprendente dell’operazione non è tanto la fascinazione per la storia di Medea, quanto quella per la struttura narrativa in versi. Se da una parte questa può essere giustificata da una ricerca curricolare (certamente sollecitata da un’insegnante – Silvana Sabatino – di rara competenza e passione) è anche vero che da sola non sarebbe bastata a produrre un lavoro drammaturgico così suggestivo, tale da eccedere un puro esercizio di stile.

Viene da pensare che il lavoro di approfondimento della versificazione in teatro, sulla scorta degli autori greci e va oltre (secondo un arco che da questi va a Shakespeare, fino a Thomas Stearns Eliot), voglia essere un percorso per accedere tramite la parola non più a un senso semplificato come lo conosciamo oggi, ma a un suo aldilà. Varca – malgrado la giovane età – approfondisce una musicalità del dire per costringere le parole a produrre significati inaspettati, slegati dalla volontà deliberata dell’autore.

Abbiamo perduto da tempo immemore questa fiducia trascendente nel dire di scena, precisamente da quando il teatro è diventato borghese, luogo cioè dei conflitti dell’IO, tutti da scrivere a monte e poi da riferire. «La voce non è il dire, ma il di là dal dire» rammentava Carmelo Bene. È questione di prosodia, di intonazione, di coloriture sonore, tutte da far sorgere non certo a fini di comprensione, ma per sollecitare un orecchio dell’inconscio, un ascolto di quei movimenti soggettivi del pubblico e dell’attore, che vogliono pescare nel negativo dell’uomo, in ciò che non sa di essere.

La tragedia greca aveva carattere maniaco. Era luogo sacro di invocazione delle forze oscure dell’uomo, per essere messe in dialettica con la legge. Per fare questo gli attori si alzavano di statura, amplificavano la voce con i rudimentali mezzi a loro disposizione e si lasciavano dire  da un testo che piuttosto di riferire, si trattava di ferire, di liberare in un delirio del dire pazzo. La versificazione concedeva all’attore di farne musica, capace di saltare la coscienza e interrogare direttamente uno stato incosciente e profondo dello spettatore, inducendolo a una sorta di posizione mistica.

Risulta quindi vieppiù affascinante e inattuale insieme l’esperimento di Varca. La tragedia di Medea è scritta in versi secondo un’espressione che mostra e nasconde, si concede all’oblio nell’attimo stesso della sua fuggente lettura. Lo stato mentale del pubblico diviene simile allo squallido sobborgo di Corinto immaginato da Varca nella scena iniziale della tragedia: Medea si rotola nella sabbia alla notizia di essere stata abbandonata da Giasone, ignorando di essere lei della stessa natura della sabbia. Afferrare sabbia e essere sabbia è la medesima cosa, giacché si tratta di abbandonare ogni padronanza dell’oggetto, perfino di sé stessi.

Medea è la tragedia di un nulla femminile che ogni donna porta addosso, tale da essere coperto attraverso la fallicità dell’uomo amato. Il matrimonio è il sigillo che un uomo appone al niente femminile, per fare da argine alla vastità in cui è situata. L’amore è desiderato ma anche una scommessa, perché niente garantisce della sua permanenza. Medea, come ogni donna, ne chiede ancora e ancora, secondo una domanda che è inestinguibile, quasi persecutoria. All’abbandono dello sposo, Medea cade in una prostrazione rabbiosa e depressa insieme. Si rotola nella sabbia, si sente sabbia non più trattenuta dalle braccia del suo uomo.

Alla hybris euripidea del personaggio di Medea, Varca contrappone un’eroina romantica nella sua accezione ottocentesca, tipica del melodramma. Non può non venire alla mente i finali di tanta sublime operistica (Bellini, Donizetti, Verdi), in cui la morte diviene l’unica via d’uscita per un amore infelice (tra gli altri Lucia di Lammermoor, Aida, Il trovatore, I puritani), e l’aldilà il luogo dove dio unirà ciò che sulla terra gli uomini hanno diviso.

Nell’intervento del pedagogo nel primo atto (comunica a Medea l’esilio), sembra di ascoltare un’aria verdiana, scritta secondo il modello della lyric form. Ma l’intera struttura del lavoro risuona ovunque di quegli arcaismi e aulicismi tipici del melodramma lirico italiano, in cui le tipiche associazioni sostantivo-aggettivo (cruda sorte, ciel possente, giusto ciel, tetto natìo), sono capaci di far cadere il pubblico all’istante nell’essenza drammaturgica della scena.

È evidente come un attore chiamato a interpretare un tale testo debba per necessità intonare la voce a una segreta musicalità del dire, per far sì che la pagina torni bianca, in un dire che al momento della sua espressione è già passato, lasciando solo la résonnance di un suono ineffabile e non più evocabile a piacimento, solo invocabile. «Ciò che nel linguaggio meglio si comprende – affermava Carmelo Bene – non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate». Insisto: scrivere in versi – Varca ce lo conferma – non è scorciatoia al senso, ma dipingere un segreto mistero con gli scarti del senso, quelli che non si attaccano al traducibile, facendo avvicinare il pubblico dalla parte del suono.

L’operazione di Varca sorprendentemente si disinteressa di essere à la page. Tanto meglio per chi – come noi di Persinsala – ammira il Grande Teatro, consapevole di come esso si possa annidare tra l pieghe meno consuete e più sorprendenti, quali quelle svelate dall’operazione varchiana. «Non insegnandosi più il verso – affermava ancora Carmelo Bene – il calo di qualità e di talento è ormai irrimediabile. L’ orecchio se n’è andato». L’ascolto della propria voce che pesca tra il testo e il proprio abisso non è più cosa che possa interessare i contemporanei, condannati all’attualità, alle strenne, all’illusione di un senso comprensibile e democraticamente alla portata di una media alfabetizzazione. C’è più mistero nella scrittura metrica di Varca, benché in parte imitativa di sontuosi modelli, che nel defilé di significati pronti all’uso che a tutt’oggi promettono di poter farne a meno. Ma se è vero come dice Amleto, che ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni qualunque filosofia, non resta che – Varca docet – tornare a un teatro retorico nella sua accezione più alta, quello secondo il quale non l’uomo ma un dio parla per bocca degli attori.