Quando il teatro distoglie dalle consuetudini borghesi

Quel ripetersi stagnante e confortevole di scene familiari, di paracaduti pronti ad aprirsi, di filodrammatiche quotidiane, sicurezze, reti sotto. Borghesi piccoli piccoli, infervorati di quell’indignazione pigra espressa al massimo del climax nell’invettiva virtuale, nelle sciabolate di commenti sotto ai post.

Il teatro assolve dalle chiusure. Dalle solitudini in comunità social. Dai proclami per adepti invisibili.
Il teatro fatto di vita, di corpi, di poco scampo. Di voci e di storie. Di storie di strada.

La nuova Medea batte. Batte sfruttata dal suo eroe. Che la tradirà. La lascerà. Madre e mendicante. La nuova Medea ha accento dell’Est. Fugge. Da occlusioni di pensiero. Da bavagli. Crede arrivando qui di essere arrivata all’America. Medea in via Milano, a Brescia. Il quartiere abitato quasi per intero da migranti. Migranti regolari. Che pagano tasse e affitto. Che fanno i lavori che gli italiani, per primi, non vogliono fare. E si sentono derubati, gli italiani.

Medea in via Milano, la periferia della città grassa, abbondante, unta. Dei milioni spesi in vestiti e facciate. E motori parcheggiati per sfoggio. E palazzi imbottiti d’oro. E signorie a cavallo. La periferia, slabbrata, sono un paio di jeans ai bordi delle strade sozze. Lasciati dalle puttane. Nemmeno le briciole del disavanzo aristocratico. Nemmeno le briciole.

Una Medea giovane, disincantata, che non ha perso il sorriso (sarà anche febbrile, folle), che ricorda. Che non ha perso i suoi poteri taumaturgici. Che non l’hanno salvata. Giasone è rosso. Barese. Non è tornato da nessuna spedizione sacra. La violenta, la mena, la sfrutta. Medea batte per lui. Medea partorisce. Due gemelli. Di Giasone.

La parola è vicina, confidenziale. Il tono eccessivo. La figura (vocale e visiva) cangiante, dipendentemente dagli umori degli spettatori, sette, in un furgoncino mobile per le vie del peccato. In uno spazio sì stretto il patto tacito è complicità, da piccola ciurma, malandrino. Medea è a un passo. Avverte gli occhi addosso. La persona muta completamente in personaggio. Non senza slabbrare il cenno, non senza renderlo anche inverosimile. Estendere la teatralizzazione per ridurre la sovrapposizione al reale, rimasta netta, distinta.

La dialettica aderente. Di strada. Poche consonanti, vocali mozze, ripetizioni. La dialettica del teatro fuori dagli autoritratti. Il linguaggio informale, lo slang, quello masticato, che nel luogo rituale della scena assume contorni subliminali, da tropismi.

Elena Cotugno è Medea, nei confini del personaggio, oltre i personalismi, lo sterno allenato ad emettere suoni randagi, la fonetica aperta, non inclusiva quindi non rivolta addosso. È l’ascoltatrice mutata in strumento di risonanza, l’ascoltatrice delle storie, le storie vere, di tutte le Medea che ha incontrato, da Lecce a Torino, e di cui ne ha preso il posto.

Medea scende dal furgone/postribolo/teatrino, si confonde alla folle, si fa merce. Si sveste dall’ipocrisia del perbenismo borghese, piccolo piccolo, quel prendere le distanze dalle forme autonome di prostituzione da cui non siamo assolti. Che ci si venda solo per strada?

Si assiste ad una prova attoriale penetrante. Ricamata da soluzioni drammatizzate notevoli, ricreate nel ristretto d’un abitacolo. L’intelligenza figurativa d’un sapere di mestiere. L’idea in materia. La coscienza. L’autorialità. E noi, dall’altra parte, nei confini dei nostri (pre)giudizi. Scardinati, forse, il tempo di un giro. Un giro di giostra.

La performance ha avuto luogo:
Brescia, itinerante

Medea in via Milano
ideazione e regia Gianpiero Borgia
drammaturgia Fabrizio Sinisi ed Elena Cotugno
con Elena Cotugno
progetto scenografico Filippo Sarcinelli
produzione Centro Teatrale Bresciano
collaborazione con Teatro dei Borgia

Ph: M.N.